Un amore all'ombra della storia
Aqua e tera, il romanzo di Franceschini: le donne sono migliori
Il coraggio che viene dall’età ha forse spinto un politico puro, come l’autore, a squadernare in modo così intenso la sua intima essenza, come a volerla svelare anche a se stesso
Cronaca - di Goffredo Bettini
Aqua e tera, l’ultimo romanzo di Dario Franceschini, si dipana lungo percorsi diversi, seppur intrecciati e sovrapposti.
C’è la storia politica e sociale dei primi cinquanta anni del Novecento, nelle campagne del ferrarese. La povertà, il lavoro durissimo e malsano dei contadini, la fatica della bonifica manuale delle paludi malariche, la “pellagra” per fame, la guerra con la speranza, al ritorno dalle trincee, di ricevere in dono un pezzo di terra, la delusione e la lotta cruenta contro i padroni, le leghe socialiste, le vendette sociali e l’uso di parte delle istituzioni locali e poi la reazione agraria, spietata e militarizzata, l’utilizzo delle squadracce fasciste che, dallo scontro violento (allora diffuso), passarono all’omicidio, alle stragi, al terrore permanente. Il susseguirsi delle varie fasi, fino alla liberazione di Ferrara nel 1945, passa veloce nelle pagine del romanzo.
L’autore, con l’animo, sta dalla parte della libertà e degli oppressi, evitando proclami ideologici, piuttosto toccando con comprensione umana i protagonisti del socialismo in lotta; i quali, come Matteotti, rinunciano consapevolmente alle loro vite private, in nome degli ideali da realizzare con l’impellenza che impone la storia. Semmai, in Franceschini, c’è un disincanto circa la politica prevalentemente istintuale, non abbastanza ragionata, organizzata, lungimirante. Destinata, così, alla sconfitta. Anche per la diffusione negli anni Venti di una insicurezza permanente, alla quale contribuirono le forme di lotta della sinistra, convinta di essere prossima alla vittoria. È un implicito richiamo alla necessità, anche da parte di chi ha ragione, di mantenere la misura e la pietà. Altrimenti il risultato può essere spaventare, senza vincere. Come allora scrisse Luigi Fabbri: “In Italia s’è avuta la contro-rivoluzione senza rivoluzione, una vera e propria contro-rivoluzione preventiva”.
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Dentro questa grande storia, c’è la vicenda esistenziale di alcune famiglie, che raccontano la difficile quotidianità in mezzo al susseguirsi di avvenimenti dolorosi e alcune speranze. Sono splendidamente ripercorse le tradizioni che tengono nel tempo, la sapienza dei mestieri che si trasmettono, la saggezza dei vecchi, l’austera divisione del pane disponibile, la resistenza sovrumana nel piegare la natura maligna. È la parte dove l’autore fa emergere il suo intimo legame con i luoghi natii. Ferrara, le sue campagne, l’acqua che le allaga, la scomparsa della malaria, la presenza del mare che non si vede, l’umidità della nebbia e i cieli limpidi per i venti del Nord, le stradine silenziose e l’apertura improvvisa e scenografica laddove sorgono i grandi edifici del passato. Ovunque si avverte il nucleo di civiltà che sorregge quelle terre.
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Le famiglie raccontate custodiscono tutte il segreto rimando all’anima di Ferrara. Sono al contempo opportunità e prigione. In una contraddizione drammatica, che sempre riverbera, concentrata nel ruolo delle donne: collante operoso della casa e, al medesimo tempo, sfruttate, sottomesse, offese dal “patriarcato” imperante. Tra i ricchi, così come tra i proletari. In Franceschini non emerge solo una spinta, ancora così attuale, al giusto riconoscimento della differenza arricchente femminile. Il sentimento è più drastico. Le donne sono le vere ammirevoli protagoniste del romanzo. Fulcro familiare e sociale; coraggiose e operose; intelligenti e con i piedi per terra; coerenti e perennemente in lotta per la vita. Sono migliori degli uomini. E poi: sanno perdonare, comprendere, solidarizzare tra loro e amare con accoglienza e purezza; perché, anche nel piacere fisico, disarmate della dimensione del dominio. È proprio l’amore tra le due protagoniste, Lucia e Tina, definito “invertito” dai rispettivi padri (uno fascista e l’altro socialista), che annoda lo scorrere del romanzo.
Al riparo dalla “grande” storia e dalla storia delle famiglie, c’è quello che più interessa l’autore: la libertà di amare in modo autentico, sincero, fraterno. Che ti colloca in una dimensione diversa; laddove affronti il mistero della vita e l’incertezza del destino. La presenza, anche nell’assenza fisica dell’amata, guida ogni frammento dell’agire di ciascuna. Le amanti sono costrette a dividersi per assurde convenzioni, pur non avendo fatto nulla di male o aver dato fastidio a qualcuno. È il loro tributo alla storia. Vivranno pensandosi, entrambe infelici. Eppure, la “piccola” storia del loro amore sopravvive alla grande storia collettiva, così crudele. La giovane figlia di Lucia, cresciuta da Tina, mentre nel ‘45 Ferrara è liberata dai nazifascisti, si cimenta e irrompe nella vicenda pubblica, accettando dentro di sé l’amore delle donne che l’hanno generata. È la piccola “storia” dell’amore tra singole persone che garantisce la continuità della vita e, oltre e dentro la storia dei grandi, ti relaziona alle domande e al senso ultimo dell’esistenza.
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Il linguaggio del romanzo è pulito, cristallino, antiretorico, disciplinante il materiale incandescente che tratta. Il racconto si sviluppa a “falcate” lunghe, senza perdere neppure per un momento la continuità della tensione che lo attraversa. Franceschini ha raccomandato, nella lettura del suo scritto, di chiudere gli occhi e dimenticare il nome dell’autore. Non sono convinto che sia un bene. Ho conosciuto a fondo Dario come politico. Certamente freddo, mente calcolante, tecnicamente sapiente. Un grande professionista con il quale, parlando di lavoro, mi sono sempre compreso all’istante. Tuttavia, da collega stimabile, negli ultimi anni gli sono diventato amico. E ho più volte ricordato il peso che do a questa parola. La ragione sta nell’aver via via intuito che dietro e oltre le convinzioni politiche c’erano in lui comandamenti interiori.
Il valore della democrazia, un cristianesimo solidale, un’assenza di pensieri irremovibili o di odio, un realismo niente affatto cinico, ma comprensivo delle debolezze umane, una pazienza per le cose del mondo che richiama dimensioni più importanti degli errori e dei difetti degli altri. Tutto questo presuppone un serbatoio nascosto di passioni, pensieri, sentimenti e di una fede vissuti in silenzio, dietro le quinte dei palcoscenici. E, tuttavia, essenziali per rendere migliore la parte “febbrile” del fare; per dirla con Pietro Ingrao. Forse il coraggio che viene dall’età ha spinto un politico puro a squadernare in modo così intenso la sua intima essenza, come a volerla svelare fino in fondo anche a se stesso; integrandola in uno sguardo sulle cose pienamente ricomposto.