Il caso dell'ex pugile
Iwao Hakamada: chi è l’88enne giapponese detenuto 46 anni nel braccio della morte a causa di prove false
Hakamada, ex pugile, era stato condannato nel 1968 per l’omicidio del suo capo e della sua famiglia: è solo il quinto condannato a morte a cui è stato concesso un nuovo processo nella storia del Giappone postbellica
Esteri - di Diana Zogno
Il Giappone, insieme agli Stati Uniti, resta l’unica nazione, tra le democrazie industrializzate membri del G7, a praticare la pena di morte. Il paese detiene circa 106 persone in attesa della pena da eseguire mediante impiccagione, con un’attesa media anche di decenni per la revisione delle condanne o l’esecuzione.
La pena capitale nel Paese del Sol Levante ha origini antiche, nonostante una prima abolizione fosse già avvenuta nel 724 per mano dell’imperatore Shōmu, sotto l’influenza del buddismo. La pratica è stata poi ripresa e da quando il codice penale giapponese ha subito l’influenza occidentale, nel corso dell’era Meiji, ha autorizzato la pena di morte per i crimini “più atroci”. Nel 1945, durante l’occupazione da parte degli Stati Uniti, infatti, l’estrema pena fu mantenuta all’interno dell’ordinamento giudiziario. Oggi più che mai l’esecuzione capitale è oggetto di numerosi dibattiti nel Paese e la sua “appropriatezza” messa in discussione anche nelle ultime settimane dal caso di Iwao Hakamada, giapponese di 88 anni originario di Shizuoka, prosciolto dall’accusa di omicidio e rilasciato dopo aver trascorso 46 anni nel braccio della morte.
Hakamada, ex pugile, era stato condannato nel 1968 per l’uccisione del suo datore di lavoro, nonché della sua famiglia, presso la fabbrica di pasta di soia miso dove lavorava. Nel 2014 era stato rilasciato per l’emergere di nuove prove del dna che hanno messo in dubbio l’affidabilità della sua condanna iniziale, finché il 26 settembre scorso un nuovo processo ha definito l’innocenza di Hakamada e la falsificazione da parte degli inquirenti di alcune prove iniziali che avevano portato al suo arresto. «L’autorità ha aggiunto macchie di sangue e ha nascosto gli oggetti nella vasca del miso ben dopo che l’incidente si era verificato», ha affermato il giudice Kunii Koshi. I procuratori hanno deciso di non presentare ricorso contro l’assoluzione.
Il caso dell’ex pugile ha presto acceso le critiche verso il sistema giudiziario e di esecuzione delle pene nel Paese. La presidente della Japan bar association, Reiko Fuchigami, ha esortato il governo e il Parlamento ad adottare misure per abolire le esecuzioni e snellire i processi giudiziari. «Il caso Hakamada mostra chiaramente la crudeltà della pena di morte ingiusta e la tragedia non dovrebbe mai più ripetersi». L’attuale ministro della Giustizia Hideki Makihara ha replicato che sarebbe “inappropriato” abolire la pena capitale. Anche i vescovi giapponesi hanno rinnovato la loro richiesta di abolizione dopo l’assoluzione di Hakamada: «vorremmo invitare la società giapponese a considerare ancora una volta i meriti e i demeriti della pena di morte», ha affermato l’arcivescovo di Tokyo Tarcisio Kikuchi Isao, presidente della Conferenza episcopale.
Proprio sullo stesso tema era “caduto” nel 2022 il predecessore di Makihara, Yasuhiro Hanashi, costretto a dimettersi per alcune dichiarazioni rilasciate sulle esecuzioni capitali. Secondo il quotidiano nazionale Asahi Shimbun, infatti, Hanashi avrebbe ironizzato sull’importanza del ruolo del ministro della Giustizia che è incaricato, per la legge giapponese, di autorizzare le esecuzioni, sottolineando come di fatto quella fosse l’unica circostanza in cui il ministro della Giustizia ottenesse l’attenzione nazionale. L’ultima esecuzione registrata nel Paese è avvenuta nel luglio 2022, quando è stato impiccato un uomo che nel 2008 aveva ucciso sette persone in un violento scontro con un camion e accoltellamento, nel quartiere dell’elettronica di Akihabara a Tokyo.
Dopo le dimissioni di Hanashi, nel corso del 2023, il Giappone non ha più effettuato impiccagioni, “merito” dell’esposizione internazionale del Paese nel suo ruolo di presidenza del G7, ma anche della crescente pressione interna e del malcontento montante contro il dicastero della giustizia, dopo alcune rivelazioni emerse secondo cui guardie carcerarie avrebbero aggredito dei detenuti.
Ma il caso di Hakamada, probabilmente il prigioniero più anziano, nella storia dei sistemi giudiziari democratici moderni, ad aver atteso la propria pena in un braccio della morte per poi essere assolto, apre una crepa inedita per la reputazione della giustizia giapponese all’interno e al di fuori dei propri confini.
Dal dopoguerra a oggi, infatti, la popolazione giapponese ha generalmente mostrato fiducia nei tribunali della giustizia nazionale. Si contano sulle dita di una mano i condannati a morte a cui è stato concesso un nuovo processo, solo quattro. Hakamada è solo il quinto condannato a morte a cui è stato concesso un nuovo processo nella storia del Giappone postbellica. Il caso potrebbe costituire un precedente importante per la giustizia giapponese, di cui per la prima volta vengono messe sotto giudizio pubblico l’infallibilità, ma soprattutto la legittimità del ricorso alla pena di morte.