Verso le presidenziali Usa
Kamala Harris, i sondaggi la premiano ma evitiamo di farla passare per paladina dei lavoratori
La tattica dei Democratici per la Casa Bianca è conquistare il sostegno di gruppi discriminati e sommare poi a questo bacino di partenza una significativa quota del ceto medio bianco
Editoriali - di Michele Prospero
Con tanto di cartello colorato recante la scritta “Kamala”, alcuni dirigenti del Pd hanno varcato l’Atlantico per assistere ad una lezione americana. Gli appunti presi, però, non sempre si sono rivelati fedeli alle parole ascoltate nell’arena di Chicago. Che i Democratici abbiano virato verso un modello di partito della “working class”, come è stato affermato, appare ad esempio una forzatura interpretativa. Harris, la sola volta in cui ha maneggiato l’espressione “working class” – e non quella maggiormente lasca di “middle class” -, lo ha fatto per mettere insieme i “workers”, la piccola impresa (“small business”) e le “American companies”.
Una simile angolazione onnicomprensiva rinvia, per certi aspetti, alla configurazione classica di Locke, che racchiudeva nella categoria di “labour” il servo, che prestava opera in cambio di denaro, e il padrone, che si impossessava dei risultati dell’altrui fatica, dal filosofo inglese equiparata all’attività del suo “cavallo”. Non a caso, allorché si tratta di indicare una ricetta contro il disagio sociale, la locuzione utilizzata dalla candidata alla Casa Bianca è “compassion”, un lemma che di sicuro esclude l’organizzazione di una combattiva solidarietà di classe. Anche quando denuncia la “injustice” e, nel momento più solenne, rivendica la “dignity” di ciascuno, Kamala Harris si muove comunque entro una impostazione che ruota attorno alla famiglia o alla “community”. Ricorrendo a un argine valoriale si prova a scongiurare l’urto orizzontale che coinvolge le classi antagoniste.
La prospettiva, in vista di un “success” a portata di chiunque, è pertanto quella di garantire le condizioni per “an opportunity economy”, nel cui segno vengono smascherate le blandizie di Trump nei confronti dei miliardari favoriti dalla flat tax e la sua collusione coi signori dell’alta tecnologia. Questa indignazione morale non comporta affatto la consapevolezza che, se c’è chi la spunta riuscendo a realizzare la propria capacità, la norma delle dinamiche all’interno di una società rimane la dipendenza, l’asimmetria dei poteri. Il concetto di “chance” accordata ad ogni cittadino rimanda essenzialmente all’agire di soggetti che ricercano la loro particolare “opportunity” confidando nel merito, che brilla sotto la protezione della comunità di appartenenza assunta quale pilastro integrativo di un’economia competitiva di mercato. Il che rientra alla perfezione nello schema consueto dell’individualismo statunitense – in omaggio al quale, peraltro, la Harris rende la sua biografia personale una narrazione esemplare per tutti –, difficilmente declinabile come leva per la costruzione dell’autonomia politica del lavoro.
Nel lessico dei Democrats non già la classe, ma la minoranza svantaggiata è il punto di riferimento per chiamare a raccolta i marginali. Cogliere il pieno del sostegno di una coalizione formata da etnie e gruppi discriminati, e sommare poi a questo cospicuo bacino di partenza una significativa quota del ceto medio bianco, è la tattica prescelta per conquistare lo Studio Ovale. Dell’ideale generale dei “civil rights”, che mobilita le differenze tuttora estromesse effettivamente dal sogno americano foriero di “dignity” e “freedom”, Harris incarna una versione in grado di lanciare uno specifico messaggio alle donne (salvaguardia dell’aborto), alle coppie omosessuali (“diritto di amare chi si ama con orgoglio”), e così evocare la “reproductive freedom”. Quest’alchimia di culture e identità eterogenee, che nel laboratorio d’oltreoceano funziona da catalizzatore del consenso, in Italia è condannata alla sterilità per via della mancanza di una segmentazione etnica dell’elettorato. Il voto di novembre è anzitutto uno scontro tra un ex presidente machista e sleale, il quale infrange le regole auree del costituzionalismo, e una sfidante femminile che riscuote simpatie in virtù della sventolata resistenza dinanzi alle tentazioni autoritarie del tycoon newyorkese.
Tolto questo pur cruciale elemento, restano le incognite sulla governance del mondo post-americano, descritto da Kamala Harris con le sembianze di un universo minacciato da “dictators”, “autocrats” e “tyrants”. Non traspare dal suo discorso la necessaria discontinuità rispetto al disegno di Biden, che ha conferito un volto prevalentemente armato alla disputa con le potenze emergenti. Proponendosi in veste di “commander-in-chief”, la stessa Harris spiega in termini di “competition” l’asse della futura politica estera. Alla Russia, oggi osteggiata brandendo il vessillo della tutela dei principi occidentali, seguirà nel lungo periodo la Cina, con l’obiettivo di vincere la corsa strategica al primato nell’intelligenza artificiale. L’enfasi su “our global leadership”, in nome di una egemonia a stelle e strisce invero sempre più problematica, non contempla aperture rilevanti in direzione di una ottica multipolare, di una definizione cooperativa dell’ordine mondiale. Anzi, rileggendo l’odierno assetto planetario nel senso di una “struggle between democracy and tyranny”, Kamala Harris persegue una risposta al caos montante che si dimostra sorretta da una logica amico-nemico curvata eticamente.
Rompendo con l’approccio minimalista caratteristico sia del realismo che del liberalismo tradizionale, Irving Kristol – in sintonia con l’“internazionalismo tipicamente americano” propugnato da George W. Bush – riconduceva l’inscalfibile supremazia Usa ad un “impulso imperialista” che non esitava a impugnare il fucile per l’espansione-esportazione della democrazia. Tuttavia, malgrado le evidenti repliche della storia, nelle relazioni internazionali non è stato ancora elaborato un nuovo pensiero dopo il neoconservatorismo. Tornando a Roma, la delegazione del Nazareno, invece degli echi dei cattivi maestri nostrani che fantasticano su una “guerra metafisica” per la libertà, dovrebbe scolpire nella mente lo slogan “do something!” che spesso risuonava sul palco di Chicago. È indirettamente un invito a fare sul serio qualcosa, e quindi a ragionare in chiave politica, ovvero di pace, negoziato nelle terre orientali, prima che la vecchia Europa si riduca a polvere.