Gli anniversari della morte dei due giganti
De Gasperi e Togliatti hanno fondato la nostra democrazia, Meloni e Salvini la stanno distruggendo
Da Gasperi non puntava a una Dc reazionaria (tranne che negli ultimi anni). Togliatti, diversamente dai comunisti francesi, intuì che non bastava il cimento eroico nell’urto antifascista
Editoriali - di Michele Prospero
Dopo il ruralismo ruspante del Ventennio, con il culto della guerra, dello Strapaese e del “me ne frego”, si poteva immaginare una transizione alla democrazia solamente con le convergenze parallele di un esule interno, nelle grazie della potenza universalistica del Vaticano, e di uno dei capi del movimento comunista mondiale, che traduceva i classici dal tedesco, dal russo, dal francese. Entrambi i padri della Repubblica avevano ereditato da Cavour, insieme al realismo quale grammatica minima di ogni attore politico costruttivo, anche la necessità di declinare lo spazio di manovra secondo le opportunità maturate nel contesto europeo e internazionale.
Correggendo l’iniziale apertura al fascismo, apprezzato per il salvifico rifiuto del vecchia Italia liberale nonché per la soluzione organicistica in risposta al mostro socialista, De Gasperi traghettò con fatica il popolarismo cattolico nei lidi della democrazia. Ha dovuto infatti fronteggiare, da una posizione sovente minoritaria, la velleità di uno “Stato cattolico” e con base monarchica lungamente coltivata dalla Chiesa. Sino al Concilio Vaticano II, il clero sognava la Spagna del Generalissimo come il felice regno del corporativismo benedetto dalla rilevanza pubblica della fede. Mediante un drastico taglio del cordone ombelicale con la destra più reazionaria – Gedda auspicava “una democrazia autoritaria”–, il politico trentino ha così immesso entro le fondamenta repubblicane un filone culturale esterno e in origine ostile al profilo dello Stato nazionale.
Ha sfruttato l’icona intollerante delle Madonne pellegrine e anche sollecitato il soccorso ecclesiastico nel reperimento del consenso, ma non si è spinto fino a diventare schiavo dell’integralismo rinunciando a pensare in autonomia le cose del politico. Già nel 1944, anzi, De Gasperi aveva ben chiaro che nella stagione post-fascista era impossibile trascendere la questione comunista. Scrisse a Sturzo, in quello stesso anno, che andava bandito qualunque timore di un atto eversivo perseguito dal Pci (“non vedo pericoli di putsch”), dato che si dichiarava sicuro che i rossi avrebbero intrapreso la via della correttezza istituzionale avanzando “attraverso le forme democratiche”. Muovendo dalla certezza circa l’accettazione del metodo pacifico di lotta da parte dell’avversario, ha ideato la sua strategia di conflitto e cooperazione. “Non è sulla base dell’anticomunismo – concludeva – che noi possiamo radunare le forze, altrimenti correremo il rischio di confonderci con correnti reazionarie”. Non differente fu l’interpretazione togliattiana della fase storico-politica che si era disvelata in seguito agli eventi del 1943-1945. Il Migliore calibrò il mobilitante mito sovietico – l’epopea di Stalingrado aveva appena rinnovato la valenza simbolica dell’Ottobre e la bandiera rossa alzata sul Reichstag aveva rianimato le gesta della conquista del Palazzo d’Inverno – accanto alla comprensione attenta degli sfuggenti tempi della politica.
Con le spalle coperte da una ideologia totalizzante, la quale alimentava l’aspettativa palingenetica nelle masse in attesa di una redenzione secolare, Togliatti poteva permettersi una spregiudicata condotta tattica, non per nulla ricusata dai socialisti e dagli azionisti, che stigmatizzavano il moderatismo comunista. A ragione, dinanzi alla geometrica coerenza della linea concepita a Botteghe Oscure, Pietro Scoppola evidenziò che “la proposta unitaria dei comunisti rappresenta l’elemento di maggiore novità nella scena politica del dopoguerra” (La repubblica dei partiti, Bologna, 1991, p. 129). In tal senso il “partito nuovo” era la Politica che si espandeva come autentico fenomeno di popolo. Diversamente dai comunisti francesi, Togliatti intuì che non bastava il cimento eroico nell’urto antifascista, poiché il farsi Stato del movimento operaio passava anzitutto attraverso il ruolo attivo nel processo costituente. Sposare la logica del compromesso sui principi al fine di vergare la Costituzione significava, in concreto, adempiere al compito rivoluzionario in occidente. Ricorrendo ad una immagine molto efficace, il giurista Gianni Ferrara ha coniato per Togliatti la definizione di “rivoluzionario costituente”. In effetti, più ancora di De Gasperi e di ogni altro segretario di partito, Togliatti ha dedicato tempo – sacrificò l’incarico ministeriale per badare solo alla crescita della sua “giraffa” – e studio per prepararsi all’impresa di serrata discussione e accorta stesura della legge fondamentale.
In essa l’articolo più socialista – l’art. 3, che delinea un dinamico progetto di cura pubblica del disagio sociale in vista della effettiva sovranità del lavoro – e il più liberale e garantista – l’art. 13, nella cui formulazione è facilmente rintracciabile l’apporto dell’inchiostro verde di Togliatti, quale segno del rigetto delle pratiche opprimenti del totalitarismo novecentesco e come debito verso i tanti compagni braccati e torturati, da Gramsci ai ciabattini, dagli operai alle filatrici – recano l’impronta diretta o indiretta del dirigente comunista. L’incrinatura del patto costituente, con la brusca cacciata delle sinistre dal governo nel maggio del 1947, non interruppe l’impegno condiviso di redazione della Carta repubblicana. La crisi di governo, la dilatata influenza americana e, da ultimo, l’attentato a Togliatti di luglio 1948, non si trasformarono nel pretesto per una rottura di sistema. Il patriottismo costituzionale, però, fu costretto a convivere con i costi sociali elevati della svolta liberista degli anni ‘50, che piegò l’interclassismo dei cattolici e ancora più il solidarismo dossettiano a vantaggio di un saldo flirt con il “quarto partito”, la Confindustria. Nel frattempo si rivelò cruciale la dimensione internazionale, ma, al di là delle alleanze militari richieste dalla incipiente guerra fredda, De Gasperi con perspicacia e in solitudine inseguì il “mito europeo” come obiettivo di medio e lungo periodo. Negli anni più duri del centrismo, con il piombo che colpiva gli operai e i braccianti nelle piazze, l’oblio ricoprì la cesura storica della Resistenza.
Il leader della Dc non a caso cominciò a parlare di totalitarismi, a lanciare occhiate alla destra monarchica e missina resa protagonista dei giochetti d’Aula, a denunciare persino la cattiva consuetudine di celebrare “la festa fratricida” della Liberazione. Se il piano di De Gasperi era quello di fare della Dc il “partito della mediazione pura” (G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, Firenze, 1974, p. 547), all’epilogo del suo decennio di potere il mediatore non esitò ad assaporare il gusto dell’avventura. Imponendo, proprio alla scadenza della legislatura, come rimarcò con sdegno Vittorio Emanuele Orlando, una legge elettorale divisiva e truffaldina che infuocò lo scontro nelle Camere e nel paese, il presidente del Consiglio aveva accompagnato la fresca repubblica sull’orlo di una grave crisi di sistema. Resistette, in conformità al disegno di Togliatti, l’argine che impediva di tramutare la ferrea opposizione ai governi in una ripulsa verso il regime. Eppure, come ricorda Scoppola (La proposta politica di De Gasperi, Bologna, 1978, p. 337), con la complicità dell’esecutivo si manifestarono ovunque “forme di emarginazione e di vera discriminazione nei confronti di esponenti comunisti nei luoghi di lavoro che non contribuirono certo a far sentire lo Stato come una casa comune”. Comunisti e socialisti vennero licenziati su ampia scala e penalizzati negli uffici pubblici, mentre nelle aziende furono inaugurati reparti confino per gli operai sindacalizzati. Tuttavia la repressione non scalfì l’impianto della lunga marcia nelle istituzioni tratteggiata dal leader del Pci. Nella sua ottica disincantata, “per l’Italia del tempo era meglio una democrazia senza illusioni ideologiche che le illusioni ideologiche senza democrazia” (C. Tullio Altan, Populismo e trasformismo, Milano, 1989, p. 272).
Da fattore di forza il modello sovietico si stava, però, convertendo in un motivo di freno, e sempre più gravose apparivano le ricadute delle appartenenze di campo. Dopo il ’56, allarmato per il “rigurgito di riformismo anche nel partito”, in Direzione Togliatti se la prese con Di Vittorio, accusato di non aver avuto “fiducia nel partito” e di aver palesato “un giudizio sentimentale e sommario” (in M. L. Righi, a cura di, Quel terribile 1956, Roma, 1996, p. 239). Riassorbito il trauma ungherese, superate le aspre contestazioni ricevute nei primi anni ’60 da Amendola e Ingrao sulla democrazia interna e sui legami con Mosca, Togliatti riuscì a produrre altre innovazioni: nell’importante tragitto che sarebbe terminato col memoriale di Yalta, egli mostrò curiosità inedite nel ramo artistico, di fatto archiviò il monopolio del canone storicista, e a Bergamo percepì come attorno ai destini dell’umanità nell’era dell’atomica potesse nascere un fecondo dialogo con i settori più radicali del cattolicesimo. Oltre che nel percorso fondativo della Repubblica, parallele sono state anche le convergenze nelle derive che hanno determinato la inopinata rimozione delle grandi sintesi politico-culturali offerte dai due edificatori della democrazia italiana.
La catastrofe degli anni ’90 è scaturita pure dall’abbandono dello stile politico scolpito da De Gasperi e da Togliatti. Emblematico è che tra gli artefici dell’addio alla formula avviata dallo statista trentino ci sia stato Scoppola, lo storico da cui venne la più autorevole ermeneutica della “proposta politica di De Gasperi”. Aderendo al movimento referendario dell’ex-conservatore Segni, egli ha teorizzato la rivolta contro la “repubblica dei partiti” in nome dell’epoca leggiadra dei liberi cittadini divenuti finalmente sovrani. La frantumazione della unità politica dei cattolici, in sostituzione del tradizionale centro che guardava a sinistra, ha però regalato la rappresentanza dei ceti medi prima alla Lega e infine alla destra più estrema. Una sciagura che si è affacciata in modalità simili anche nella parabola triste del Pci. Togliatti (Opere, VI, Roma, 1974, p. 767) ebbe quasi una premonizione quando censurò “lo schematismo esclusivamente propagandistico” del giovane Occhetto.
Estraneo al realismo di scuola comunista e al solido partito di massa, l’ultimo segretario ha preferito la donchisciottesca “Cosa-carovana” alle preziose casematte disseminate nei territori reali, ai pilastri della Costituzione ha anteposto la critica indignata della democrazia consociativa. Con l’ambizione di “costruire un’alternativa al regime”, di opporre cioè al dominio dei partiti “una nuova repubblica dei cittadini elettori”, Occhetto ha creato un deserto per niente rosso. Da allievo diligente, con una qualche onestà intellettuale, Veltroni asserisce spesso che mai si sarebbe iscritto al Pci di Togliatti: se il suo niet fosse stato reiterato, ci sarebbe stata una tessera in meno per la falce e martello, ma forse avremmo avuto un partito e una repubblica in più, perché non indotti al suicidio dal vizio assurdo del nuovismo.