La democrazia ferita
“Italia a rischio deriva autoritaria”, l’allarme della Commissione Europea
La nostra penisola si sta sempre più trasformando in una democratura, secondo la Commissione europea. E, mentre i giornali italiani sembrano incapaci di comprendere questa deriva autoritaria, il governo Meloni si avvicina sempre più all’autocrazia di Orban
Editoriali - di Michele Prospero
E chi glielo dice adesso ai giornaloni che Roma è più vicina a Budapest che a Londra? Mentre i loro opinionisti erano mobilitati per aggredire il “Tribuno Collettivo” che osava punzecchiare le riforme meloniane, il “Rule of law report 2024” della Commissione europea ha maturato una convinzione del tutto opposta: l’Italia sta assumendo un profilo più affine a una democratura che a una democrazia maggioritaria. Lo schiaffo è diretto al governo, d’accordo, ma colpisce in pieno anche gli editorialisti che di recente hanno accusato Macron e Scholz di avere frettolosamente isolato la presidente del Consiglio al solo fine di “creare muri contro gli estremismi con cui hanno a che fare nei loro Paesi”.
Sul Corriere, Angelo Panebianco irrideva i due leader stranieri per “il tentativo di associare Giorgia Meloni agli anti-sistema di casa loro, fingendo che non ci siano differenze”. Ci saranno pure queste chiare dissonanze tra un modello di sovranismo e l’altro, tuttavia non sono state percepite dal gruppo di lavoro guidato da un liberale moderato come il belga Didier Reynders. Il documento sulla “rule of law” denuncia in maniera insindacabile gli irrigidimenti autoritari già realizzati nella penisola. A costruire uno “spazio civico ristretto” sono sicuramente la diffusa violenza della polizia verso i manifestanti, i reiterati attacchi dei ministri alle organizzazioni umanitarie, l’occupazione di tutte le reti televisive pubbliche, il dilagare di un “uso considerevole di procedure legislative accelerate o di decreti d’urgenza” (nell’attuale legislatura oltre la metà degli atti normativi è costituita da decreti-legge). Ma le pagine del report europeo stigmatizzano soprattutto il premierato forte quale leva antidemocratica che serve alla destra radicale per edificare un potere irresistibile. Stridente è il contrasto tra le sensibilità dei partiti continentali e gli orientamenti dei fogli liberali nostrani.
Panebianco sostiene che il pacchetto Casellati senza dubbio presenta alcune carenze tecniche, ma – a suo merito – il testo approvato finalmente “mette mano alla forma di governo” in vista di un santo bipolarismo, che postula sempre un esecutivo di legislatura. Secondo il politologo, «progettare cambiamenti costituzionali che diano stabilità al governo non è un delitto di lesa maestà. È un’imprescindibile esigenza». Lo stesso inno alla novità è stato accennato dal presidente della Consulta quando ha affermato che «la forma di governo deve essere messa in discussione». Ora però, sulla base di una varietà di fonti, giudizi scientifici, questionari e colloqui, la relazione annuale dell’Unione smonta uno dopo l’altro i congegni inventati per giustificare “la madre di tutte le riforme”. Non stupisce che le penne più leste nel certificare che nel Belpaese tutto va bene, e che le riforme costituzionali sono delle fulgide produzioni giuridiche del genio italico, siano diventate consulenti di qualche ministero oppure presiedano commissioni consultive attorno a materie sulle quali pontificano a mezzo stampa.
Galli della Loggia, che è solito paragonarsi agli “indipendenti di sinistra” degli anni ’70 per il suo atteggiamento nei confronti del governo in carica, da storico disinteressato e ostile all’“antico conformismo degli intellettuali” consegnò un ritratto eloquente di Meloni: non “il passato” ma “il futuro”, “nuova, diversa, più in sintonia psicologicamente con il sentire degli elettori”, “una persona sola al comando”, “un vero leader”, “il desiderio di colmare un grande vuoto”, “capace di comandare e di essere obbedita”, “una leadership personale” che “intende lasciare un segno”, “una voce alta e forte rivolta al Paese” con l’unico freno rappresentato dall’assenza in Costituzione di un “governo forte”. Il problema è che da noi non esiste una cultura delle garanzie, degli equilibri dei poteri, dei limiti della politica. Per questo il decadimento sul terreno liberaldemocratico è stato sottolineato dall’Ue, non certo dai commentatori terzisti. Così, mentre Antonio Polito, che a Palazzo Chigi aveva visto all’opera “il cigno per l’Europa del futuro”, applaudiva al proposito governativo di scacciare qualsiasi deriva sudamericana evirando le facoltà di un capo dello Stato eletto dal Parlamento, il rapporto Ue scorgeva proprio nella camicia di forza imposta al Quirinale, utile per allontanarlo dalla gestione delle crisi, i sintomi nitidi di una involuzione istituzionale.
Anche a Cassese, il quale si esibiva in veste di sacerdote della divina “stabilità” e lodava “l’elezione contestuale delle Camere e del presidente del Consiglio”, l’analisi della Commissione sembra replicare lanciando un allarme sulle gravi ricadute di una induzione artificiale alla lunga durata degli esecutivi: la mistica della permanenza nella stanza dei bottoni assurta a valore in sé non può mai comprimere la funzionalità del sistema politico. La dinamica adattabilità alle situazioni impreviste racchiude peraltro il carattere inestirpabile del governo parlamentare. Con un evidente fastidio, persino Repubblica ha reputato il resoconto sullo Stato di diritto “esagerato”, “inasprito” a causa dei legami ormai deteriorati tra Meloni e i vertici europei a seguito del mancato sì a Ursula. La soluzione ad ogni guaio per il quotidiano progressista è che Giorgia ritrovi il “fatidico tocco magico dei primi mesi”.
Come se non fosse stato per l’appunto questo leggiadro “tocco”, su cui tanto ricama Stefano Folli, ad accorciare notevolmente la distanza tra i patrioti d’Italia e gli autocrati d’Ungheria. Coltivando il fasullo mito del governo di legislatura, con la compiacenza dei suoi intellettuali “orbanici”, la compagine nero-verde sacrifica l’autonomia del Parlamento, il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, il bilanciamento dei poteri, l’universo dei diritti civili, la libertà dell’informazione. È assai amaro, eppure quasi tautologico, che in un simile scenario le più dure critiche a un assetto in vena di illiberalismo siano provenute non dalla grande stampa interna, bensì dalle istituzioni sovranazionali.