Il nuovo Cpr a Porto Empedolce
Se Hannah Arendt vedesse: Piano Mattei e lager servono a selezionare e sfruttare i migranti
Respingimenti forzati, espulsioni collettive, detenzione nei Cpr: l’ “accoglienza” occidentale non si basa sui diritti umani ma sull’acquisizione di mera forza lavoro
Editoriali - di Luca Casarini
La notizia è che a Porto Empedocle, in Sicilia, verrà reso operativo un nuovo lager per migranti da deportare, dopo che quello di Pozzallo, in provincia di Ragusa, è rimasto vuoto per il rifiuto della magistratura di Catania di avallare gli internamenti di persone che non hanno commesso alcun reato. Questi lager, sui quali sono aperte inchieste per tortura, violenze e che hanno già visto molte persone spinte al suicidio, sono chiamati Cpr, “Centri per il rimpatrio”, e sono un dispositivo fondamentale nell’architettura dell’articolata strategia del respingimento dei migranti, richiedenti asilo, profughi. Il governo, tornato sul luogo del delitto con quell’oscena conferenza stampa a Cutro dopo la strage, l’aveva annunciato: ogni regione ne avrà uno e forse, come in Sicilia, più di uno.
Basta andare a vederli da fuori – entrarci è difficile anche per gli avvocati – per capire cosa sono: alte recinzioni multiple, filo spinato, sbarre, celle, cemento. Sono campi di concentramento, dove vengono sepolti vivi quelli giudicati “non idonei a ricevere l’asilo”, e quindi con molta probabilità, da espellere. Ma chi lo decide se sono idonei? Lo farà una commissione, con procedura “accelerata”. Se una persona, ad esempio, proviene da un “paese terzo sicuro”, finisce dritto lì, perché è più probabile che sia alla fine “diniegato”. Basta allungare la lista dei paesi definiti “sicuri”, e il gioco è fatto. L’Egitto dove è morto torturato Giulio Regeni? Sicuro. La Nigeria, controllata per un terzo dai tagliagole di Boko Haram. Sicuro. La Tunisia, dove arrestano anche i candidati alle elezioni presidenziali? Sicuro. E via così.
Un tentativo ridicolo di giustificare quello che non si potrebbe fare: internare innocenti, costringerli ad impazzire imbottendoli di psicofarmaci. Massacrarli di botte se protestano e tradurli poi in carcere, con l’accusa di averlo fatto, di avere protestato. Sembra una inutile, inaccettabile, tortura nei confronti di chi chiede di essere accolto e invece è punito per avere osato. Ma il piano è un altro: demolire il diritto di asilo. E rafforzare le prassi del respingimento. Perché hanno costruito il nuovo lager a Porto Empedocle? Perché il tribunale competente, che con apposito ufficio deve confermare la disposizione del questore all’internamento della persona, diventa Palermo. E non più Catania, dove ci sono giudici che si rifiutano di mettere il timbro ad un orrore umano e giuridico come questo. Piantedosi deve aver sondato. Forse a Palermo troverà dei complici. Il sistema di “respingimento” italiano, che dal 2017 fa da apripista per quello europeo, è costituito da molteplici dispositivi, che si applicano sia in terra che in mare. L’obiettivo è appunto, respingere, cioè il contrario di “accogliere”, e i bersagli sono i migranti e i profughi, i richiedenti asilo e gli sfollati. O più semplicemente: i poveri che arrivano alle nostre frontiere in qualche modo.
Negli anni, a partire dalla stesura della convenzione di Ginevra, il diritto d’asilo, ovvero il “diritto ad avere diritti” come lo definiva Hannah Arendt, ha costituito un grande ostacolo alla possibilità da parte dei governi europei di ogni orientamento, di cacciare o deportare altrove le persone che giungono alle frontiere con l’intento di stabilirsi e vivere nel continente. Quelle del respingimento, che è collettivo e di massa e già per questo formalmente vietate proprio dalla Convenzione di Ginevra, sono tecniche amministrative che applicano, nel concreto, la necessità politica di rivedere il diritto di asilo. Questo tema, cioè la parziale abolizione di uno dei pilastri della civiltà giuridica europea, è da molto tempo in agenda nei vertici dei paesi che guidano l’Unione europea. Sostanzialmente si tratta di fornire una nuova cornice formale, e dunque legale, a tutte le pratiche di respingimento degli esseri umani messe in campo nell’ultimo ventennio, che di legale hanno avuto ben poco. Come per le costituzioni nate dal dopoguerra, anche l’assunzione dei principi della Carta universale dei Diritti dell’uomo, è ritenuta dalle classi dirigenti del nuovo millennio, una questione superata, che necessita modifiche e adeguamenti.
Il grande tema è come “governare” il fenomeno migratorio in funzione del valore mercantile della forza lavoro, e non sulla base di principi umanitari. Il crollo demografico occidentale infatti, non consentirebbe, ammesso che ciò fosse possibile e non lo è, un “respingimento” assoluto. I migranti sono e saranno fondamentali nel sostenere società come le nostre, che hanno bisogno di forza lavoro ma non fanno figli a sufficienza. Ecco allora che il “respingimento”, sul quale si impegnano ossessivamente tutti i governi, è una articolazione, fondamentale, della “selezione” di chi entra, e soprattutto del “a cosa ci serve?”. La premier Meloni lo ripete come un mantra: non possono essere gli scafisti a decidere chi entra in Italia e in Europa. Al netto della propaganda, efficace peraltro, dietro questa affermazione si celano ragioni non esplicitate, ma serie. Il “non possono essere gli scafisti che decidono”, significa “dobbiamo essere noi a farlo”. E quindi, se devono essere gli Stati a regolare l’ingresso delle persone migranti, è utile osservare come ogni possibilità legale per questi ultimi di entrare, sia subordinata unicamente alla loro messa al lavoro. Questo è il motivo principale della necessità di abolire, così come lo conosciamo, il diritto di asilo. Non vi deve essere nessuna “accoglienza” né diritto “umano” che possa venire prima della messa al lavoro di chi vuole entrare. Le “quote di ingresso”, stabilite in base alle necessità del mercato del lavoro e non in base a principi umanitari di qualche tipo, sono e devono essere “quote di braccia”, non di persone.
In poche parole, il nostro sistema di “respingimento” degli esseri umani, è il presupposto per la creazione di una “acquisizione” di mera forza lavoro, che certamente continuerà ed aumenterà, pena il crollo dei sistemi economici in transizione nei quali i paesi ricchi e senza figli del nord del mondo sono inseriti. Dobbiamo respingere gli esseri umani in quanto tali, e far entrare le braccia dei manovali dell’edilizia, dei lavoratori e lavoratrici delle campagne, delle serre e delle stalle, le gambe dei rider. Devono entrare le mani delle sarte e delle badanti per gli anziani, quelle degli addetti e addette alle pulizie degli ospedali e degli uffici. Devono entrare camerieri, mozzi di cucina e selezionatori di rifiuti per la differenziata. Abbiamo bisogno di pulitori di cessi, non di persone. Lo “status” di cittadino infatti, non può collegarsi nemmeno all’ingresso “legale” e mercantile. Nemmeno i figli di coloro ai quali “concediamo” di entrare, nati qui, possono avere la cittadinanza. Devono aspettare diciotto anni, e nel frattempo andare a scuola, all’università, e crescere come “non cittadini”. Dunque l’importante è separare il “diritto umano” da quelle braccia, quelle gambe e quei corpi che facciamo entrare. In generale si può dire che ogni Convenzione internazionale, legge o Carta costituzionale che contenga principi di “diritto perfetto soggettivo”, come il “diritto di asilo”, sia diventata un intralcio a questo progetto di “governo” delle migrazioni.
Il dibattito su questo punto, cioè l’abolizione di ogni principio umanitario in favore della supremazia del mercato come regolatore delle sliding doors dei confini, non è iniziato ieri, né è limitato al nostro paese. Le deportazioni in Ruanda dei profughi presenti nel Regno Unito, che per fortuna hanno segnato la sconfitta del suo apologeta, il grande amico della Meloni ed ex premier Rishi Sunak, sono ormai diffusi in tutto il mondo: L’Australia deporta i richiedenti asilo in Papua Nuova Guinea, all’interno di campi di concentramento; la Danimarca ha chiuso accordi sia con il Ruanda che con il Kosovo per deportare migranti; negli Stati Uniti la campagna elettorale di Trump ha come punto forte “la più grande deportazione di migranti della storia”, e last but not least, l’Italia, con l’Albania e la prima enclave di detenzione, compreso un carcere, gestita da un paese europeo in un paese extra Ue. Demolire il diritto ad avere diritti, sembra davvero una ossessione per la nuova classe dirigente europea.
I 15 stati membri che, su stimolo italiano, hanno sottoscritto la lettera inviata alla Commissione europea all’indomani dell’approvazione del “migration pact”, propongono di “individuare soluzioni innovative” sul come respingere i migranti. Come ad esempio – scritto testualmente – “intercettare e, in caso di difficoltà, soccorrere migranti in alto mare e condurli in un luogo sicuro di un paese partner fuori dall’Ue, dove soluzioni durature potrebbero essere trovate per questi migranti”. Viene un brivido se si immagina, per un attimo, che il termine “durature” possa essere sostituito con “finali”. Le deportazioni dunque, collettive e di massa, sono previste non solo nell’ambito del patto Italia-Albania, ma vengono messe in atto da molto tempo, sono più di 100mila i deportati in Libia dal mare dal 2017. In Tunisia, sempre in cambio di soldi per onorare i patti, le autorità locali deportano nel deserto, dove le prime fosse comuni con i cadaveri di donne, uomini e bambini sono state rinvenute dagli ispettori Onu.
Al di là delle definizioni, non esiste il “rimpatrio” se questo è coatto. Come non esistono i “centri di trattenimento”, se è detenzione, tra fili spinati, sbarre e privazione della libertà, e anche, come dimostrato da molte inchieste, della dignità umana. Esiste il grande piano del respingimento degli esseri umani, a favore di un grande piano di arruolamento di non-cittadini da sfruttare.
Non è questo un “approccio predatorio” per l’Africa, signora presidente? Rimane infine il punto non previsto: noi, che siamo qui fuori e osserviamo quelle sbarre, quei fili spinati, noi che sentiamo quelle grida che vengono da dentro, noi per quanto siamo disposti a tollerare i lager? Diremo che non sapevamo, oppure cominceremo ad organizzarci per tagliare quelle reti, per aiutare la vita ad uscire fuori da quella prigione?