Le stragi e il dubbio sugli autori
Stragi italiane: l’orgoglio nero fa ancora orrore, fascismo e antifascismo non sono pari
Il dubbio sugli autori delle stragi è sempre legittimo. Ma l’operazione di normalizzare l’orgoglio della “fiamma” di Almirante è una cosa inaccettabile
Editoriali - di Fulvio Abbate
Caro Piero, dici che il contesto che si riconosce in Giorgia Meloni non avrebbe mai messo in discussione la definizione “fascista” da attribuire alla strage di Bologna, tuttavia sapendo bene che un tale stigma può perfino essere messo in dubbio. Aggiungi, giustamente, di reputare, semmai, non meno fascisti: i decreti anti-Ong, le stragi di migranti, il decreto carceri e sui rave, quello sulla cannabis, i reati di resistenza passiva, le norme che avvantaggiano il caporalato. Concludi asserendo che le stragi di Stato sono quasi tutte “democristiane”. Se così è, ogni tentativo di golpe sarebbe giunto da un altrove, sì, oscuro e nel contempo riconoscibile.
Comprendo ogni tua considerazione politica. Resta però su tutto, almeno ai miei occhi, la necessità di ampliare l’arco del ragionamento ulteriore inquadrando la persistenza endemica dell’orgoglio fascista, o meglio, nel nostro caso, neofascista. Qualcosa che alla luce delle recenti dichiarazioni di Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia a capo della Commissione cultura, partito che innalza intatta la fiamma degli eredi di Giorgio Almirante nel suo contrassegno elettorale, si rende necessario. Sia detto da chi ha vissuto gli anni dell’eversione nera, c’eravamo, ne abbiamo contezza esatta. Il punto infatti, al di là d’ogni considerazione sul portato giudiziario e delle sentenze passate in giudicato, inquadra innanzitutto la sostanza antropologica profonda del nostro incerto Paese: che al fascismo, e ancora al neofascismo, ha dato voce e mano ora per incultura, ora per ottusa mediocrità assente al pensiero “civile”.
Personalmente, ti confesso, ritengo ancora adesso che il fascismo, sia come realtà storicizzata, sia come seguito identitario che per convenzione facciamo precedere dal suffisso “neo” – ergo il citato neofascismo – rappresenti un bene rifugio nella psicologia regressiva subculturale nazionale, la termocoperta della semplificazione che per semplicità definiremo “reazionaria”, segnata dal sospetto per il germe stesso della democrazia; cenotafio di orrori mortuari. Non si dimentichi che il motto «Abbasso l’intelligenza, viva la morte» figura tra i feticci più profondi dell’insieme politico cui ci stiamo riferendo. Tutto ciò non può intaccare, tuttavia, l’esercizio del dubbio dialettico. Perfette in questo senso le parole di Pier Paolo Pasolini, pronunciate nel 1974, in una riflessione sulle stragi che, senza cancellare l’antifascismo, non decapitano il bisogno di complessità: «Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Italicus 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”».
Ora, accennando ancora a un dato politico biografico personale, avrai contezza che sono tra chi più di quindici anni fa, riflettendo sul ruolo di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, da sinistra, ha sottoscritto l’appello “E se fossero innocenti?”, confermando ogni cosa proprio su questo giornale, ed era il 2007. Ripeto: ogni dubbio è necessario, a meno che si abbia un’idea ciecamente confessionale dell’operato della magistratura. Resta comunque un però sullo sfondo. Bene, facendo caso all’intento di parificazione, portato avanti in modo sfrontato e aggressivo dai famigli più interessati dell’attuale esecutivo guidato da Giorgia Meloni, si intravede l’intento di rendere moralmente equivalenti le ragioni del neofascismo rispetto alle ragioni dell’antifascismo. Quasi che l’accettazione della parentesi storica del regime, e non meno del suo seguito, sia un percorso doveroso, se non eticamente “necessario” per dare piena compiutezza alla nostra democrazia, una sorta di plusvalore inclusivo addirittura.
Quasi a non volere fare un torto familiare, genetico, alle madri e ai padri, e forse anche ai nonni e alle nonne, benchè ormai trapassati, che vestirono con orgoglio da caseggiato identitario la camicia nera, fosse anche la più anodina da capo fabbricato, in nome del lei-non-sa-chi-sono io! Qualcosa di simile a ciò che anni addietro, tempi ormai repubblicani, mi pronunciò in faccia un vigile urbano proprio in piazza Venezia mentre cercavo di comprendere il colore esatto del semaforo. “Pensavo fosse verde…”, e il vigile, fermandomi bruscamente: “Lei non deve pensare”. Il sovversivismo delle classi dirigenti di cui parlava Gramsci, sempre ai miei occhi, è pienamente restituito anche dal mondo di Giorgia Meloni e dei suoi esecutori, fortificati dal vittimismo aggressivo e pusillanime proprio della modalità fascista, come rilevava il liberale Ennio Flaiano. Lì, a formare insieme al revancismo il proprio combinato disposto. Ah, Piero, dimenticavo: per un’ampia parte di elettorato che dà ascolto acefalo alla Meloni, anche il racconto delle stragi con la complicità accertata dei neofascisti sarebbe un argomento da “radical chic”.