Il caso del colloquio di Turetta
Il colloquio tra Turetta e il padre è come la tortura: registrano le debolezze degli uomini e creano mostri
Servono a registrare le debolezze degli uomini in ceppi, innocenti o colpevoli che siano, a proseguire la battaglia giudiziaria fuori dei tribunali, inquadrando nel mirino mostri, veri o fabbricati, da gettare in pasto alla cronaca, perché i processi si fanno anche così
Editoriali - di Valerio Spigarelli
La vicenda dei colloqui in carcere di Turetta padre e figlio continua a rimanere sul tamburo e per, una volta, accanto all’ovvio, leggi le tirate moralisteggianti dei mille inquisitori un tanto al kilo che popolano i giornali pronti a strologare sul degrado morale non solo dell’assassino ma anche dei suoi familiari, c’è da registrare anche una nutrita serie di prese di posizioni critiche nel mondo dell’informazione. In molti si sono chiesti come mai quel colloquio privatissimo e dolente sia finito sulle pagine dei giornali, essendo evidente che il contenuto non aveva nulla a che vedere con l’informazione sulla vicenda giudiziaria.
Altri hanno fatto notare che l’inserimento di quella conversazione nel fascicolo del dibattimento è responsabilità del pm, che avrebbe dovuto selezionare le conversazioni irrilevanti. Qualcuno ha stigmatizzato il voyerismo che si è impossessato della cronaca giudiziaria, del quale le intercettazioni, con il loro formidabile potere intrusivo, sono lo strumento d’elezione. Infine, ed è forse il punto è più significativo, qualcuno ha cominciato a riflettere sul dovere deontologico dei giornalisti di selezionare le informazioni perché non tutto quel che può essere d’interesse pubblico deve essere pubblicato. Pochi, però, sono quelli che hanno deciso di non pubblicare quelle parole e quelle immagini. Che sarebbe stato l’unico atteggiamento dignitoso.
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Peraltro, anche da parte dei critici, nessuno ha posto in dubbio la legittimità delle intercettazioni stesse. Anzi, la quasi totalità dei commenti, anche quelli più critici, l’ha data per scontata, ma non è così. Da anni, qui da noi, intercettare i colloqui in carcere dei detenuti e dei loro familiari, soprattutto per fatti che creano clamore nella pubblica opinione, è una conseguenza automatica. Ti arrestano e mettono le cimici nei parlatori delle carceri, punto. Fa parte del protocollo giudiziario, come prendere le impronte digitali. Se l’indagine riguarda un fatto di cronaca eclatante, come un omicidio, una violenza sessuale, un reato contro la pubblica amministrazione, un’associazione per delinquere, state pur certi che, prima ancora dell’ingresso in carcere dell’arrestato, il pm avrà disposto in via d’urgenza, e il gip avrà poi convalidato, il pedissequo decreto di intercettazioni, motivato con formule stereotipate sulla “assoluta indispensabilità” ai fini delle indagini. Lo fanno per avere informazioni utili a fini probatori, si giustificano, ma non è vero.
In realtà lo fanno, in primo luogo, per ottenere quelle che nel linguaggio pudico ma peloso degli uomini di legge si chiamano “confessioni extragiudiziarie”. C’è poco da fare, la ruota della giustizia gira da millenni ma l’aspirazione di chi ha l’onere di ricostruire i fatti è sempre di ottenere la prova regina: la confessione. Quando eravamo più rudi, ma anche meno ipocriti, alla confessione si arrivava in maniere cruente, oggi che siamo civili supplisce la tecnica, ma l’aspirazione è la stessa e il dolore di chi lo sconta sulla propria pelle è acuto quanto quello fisico. E chi lo sconta, statene certi, nella stragrande maggioranza dei casi è gente poco adusa ai costumi giudiziari del Bel Paese, perché gli altri, cioè quelli che delinquono per professione, lo sanno bene che al colloquio con i familiari è bene evitare qualsiasi riferimento ai fatti perché è tutto registrato. Ma anche per loro vale la regola del grande orecchio perché le intercettazioni servono comunque anche quando non servono a fine di indagine.
Servono a registrare le debolezze degli uomini in ceppi, innocenti o colpevoli che siano, e dunque servono a proseguire la battaglia giudiziaria anche fuori dei tribunali, inquadrando nel mirino mostri, veri o fabbricati, da gettare in pasto alla cronaca, perché i processi si fanno anche così. Si fanno assecondando quella deriva alla quale da anni assistiamo, per la quale in vista di un dibattimento si costruisce la silhouette dell’imputato secondo certi cliché. Il Killer dagli occhi di ghiaccio, il corruttore sprezzante del bene pubblico, il violentatore, non sono tali per quel che fanno, o solo per quello, ma, anche, per le parole che dicono. Anzi, le parole servono meglio alla causa perché le parole si interpretano, sono più duttili, per questo le intercettazioni vanno tanto di moda fuori e dentro i tribunali. Perché appaiono come una lente di ingrandimento che riproduce nei minimi dettagli la realtà degli uomini anche se sono fatte di vento.
Una pia illusione, tra l’altro, perché nulla più della intercettazione è interpretabile. Se pensiamo alla vicenda Turetta una domanda è lecita: l’imputato era confesso, i genitori, sottoposti ad una pressione insostenibile, avevano perfino evitato di incontrarlo dopo il suo arresto – il che dovrebbe far riflettere sul livello di assoluto degrado della morale comune che impone ad un padre di tenersi alla larga da un figlio in ceppi per sfuggire al tribunale della pubblica opinione pronto a ghigliottinarlo – ed era certo che non ne avevano assecondato né i propositi né la fuga. Che prove cercavano gli inquirenti? Forse solo qualche frammento di disumanità. Con ciò dimostrando quel che molti gazzettieri forcaioli ammettono, ma che i magistrati rifiutano con sdegno, e cioè che con le intercettazioni si fa il check up etico degli imputati e anche dei loro familiari. Cioè, esattamente il contrario di quello che la legge prevede.
Ed allora, chi vuole “arrestare il degrado”, “tutelare la privacy” o anche solo “vergognarsi della vergogna” del padre di Turetta come scritto in un editoriale su Repubblica, dovrebbe prima di tutto riflettere sulle regole violate ogni giorno, ogni volta che si aprono i battenti di un carcere. Anni fa, un magistrato per bene, di fronte al Csm che lo aveva messo sotto procedimento disciplinare per una accusa che poi in tribunale franò, si difese attaccando i suoi colleghi: «Non vi perdonerò mai per aver mostrato le mie miserie». Anche allora erano intercettazioni con le quali si voleva detergere la pubblica morale nell’epoca di tangentopoli. Perché a tutti quelli che sospirano di fronte a questo fatto, e per una volta comprendono quanto violenta può essere la pubblicazione di certe parole, sarebbe bene rammentare che un tempo non era così.
Poi tutto è cambiato da quando l’azione giudiziaria ha chiesto, talvolta ha invocato e preteso, il pubblico consenso. E cosa è meglio del buco della serratura per svelare vizi e bassezze degli uomini?
Insomma, ben venga la pausa di riflessione che il caso ha provocato, basta che non sia il solito lavacro rituale e collettivo che serve solo ad autoassolversi nel finale. Ed infine, che pena il coro che, in grammelot psichiatrese, inchioda alla colonna infame un padre che non sa che pesci prendere di fronte ad una tragedia così grande. Verrebbe da dire provateci voi sapienti, ad andare a trovare un figlio accusato di omicidio riuscendo a trovare le parole giuste. Con la vergogna per il suo gesto e la paura che ne possa compiere un altro violento nei confronti di sé stesso. Provateci voi entrando in un carcere italiano, però, dove la probabilità di un suicidio è quella che si sa, non chattando comodi immersi nei vostri pregiudizi.