Il richiamo del Presidente
Corte costituzionale “monca”, il Parlamento gioca sulle nomine ma Mattarella non ci sta
Editoriali - di Andrea Pugiotto

1. Potestas e auctoritas non sono la stessa cosa. Un conto è la titolarità di un potere (potestas), altro è l’autorevolezza necessaria per esercitarlo (auctoritas). Se la prima si ottiene in ragione della carica assunta, la seconda si guadagna sul campo con l’esercizio appropriato della funzione istituzionale rivestita.
Accecante, la differenza è balzata agli occhi nelle due “cerimonie del Ventaglio” celebrate, davanti alla stampa parlamentare, a Palazzo Madama e al Quirinale. Siderale è apparsa la distanza, per postura e linguaggio, tra il Presidente del Senato e il Capo dello Stato. Ne è emersa una duplice conferma: da un lato, la capacità del Presidente Mattarella di fondere insieme autorità istituzionale e autorevolezza personale; dall’altro, la difficoltà oramai acclarata del Presidente La Russa a incarnare adeguatamente il ruolo di seconda carica della Repubblica. Esemplare il primo. Unfit il secondo.
2. L’intervento del Capo dello Stato merita una lettura integrale per i temi trattati, tutti di indubbio spessore costituzionale.
Il pluralismo informativo («la democrazia, infatti, è anzitutto conoscenza»), con l’incondizionata condanna di ogni attacco alla libertà d’informazione («atto eversivo rivolto contro la Repubblica») e la valorizzazione del nuovo regolamento UE sulla libertà dei media, piattaforme digitali comprese. Il ritorno della guerra in Europa, con l’ammonimento a non dimenticare l’eterogenesi di fini seguita all’accordo di Monaco del 1938: firmato per assicurare la pace, spalancò le porte al secondo conflitto mondiale («historia magistra vitae»). L’allarme per «il diffondersi di una sub cultura che si ispira all’odio», fino alla violenza fisica contro gli avversari politici, alimentata a livello globale da «molti apprendisti stregoni». La raccomandazione di conformare l’indirizzo politico del Paese «al rispetto del nostro interesse nazionale e dei principi della nostra Costituzione» (e non agli esiti elettorali di altri Stati, per quanto fondamentali nello scacchiere internazionale). Il nesso tra regole elettorali (che limitano le «scelte effettivamente affidate agli elettori») e il crescente e preoccupante fenomeno dell’astensionismo dal voto. La «straziante» situazione nelle carceri, le cui «condizioni angosciose» sono «indecorose per un Paese civile», trasformandole da luogo di speranza in «palestre criminali».
I giornali del giorno dopo ne hanno dato ampia eco. Viceversa, salvo rare eccezioni (su tutte, la lodevole pagina di Donatella Stasio su La Stampa), è rimasto in ombra un tema che il Capo dello Stato ha voluto trattare perché di prepotente urgenza istituzionale: «la lunga attesa della Corte costituzionale per il suo quindicesimo giudice». Merita, invece, di essere riportato al centro della scena, come questo giornale ha già fatto con preoccupata preveggenza (cfr. l’Unità del 18 aprile scorso).
3. Da quando il mandato di giudice costituzionale di Silvana Sciarra è scaduto (11 novembre 2023), sono già trascorsi otto mesi e mezzo. Spetta alle Camere in seduta comune scegliere il membro mancante a Palazzo della Consulta: convocate finora soltanto cinque volte, l’elezione non ha dato esito positivo. Ciò benché – dopo il terzo scrutinio – il quorum richiesto sia costituzionalmente sceso, dai dolomitici due terzi alla più scalabile maggioranza dei tre quinti del collegio. Non basta: solo 330 parlamentari (su 605 aventi diritto al voto) hanno preso parte all’ultima votazione, il 25 giugno scorso.
Lo stallo è tutto politico. Si procede svogliatamente, dando per scontata la “fumata nera” della seduta, volta per volta burocraticamente convocata, partecipata con sempre più malcelato fastidio. E così si intende proseguire fino al 20 dicembre, quando terminerà il mandato di altri tre giudici costituzionali (Augusto Barbera, Franco Modugno, Giulio Prosperetti), anch’essi di elezione parlamentare. Con un poker a disposizione – opinano i vari king makers – sarà più facile trovare il necessario accordo trasversale, all’interno sia delle forze di governo che dell’opposizione (o di quei suoi parlamentari sufficienti a centrare il quorum richiesto).
Nel frattempo, non importa che la Consulta continui a operare con un collegio incompleto. Dove – in caso di parità – è il voto del suo Presidente, raddoppiato in valore, a decidere la causa in esame. Dove viene meno l’equilibrio tra componenti che la Costituzione vuole presenti in eguale misura (cinque giudici di nomina presidenziale, cinque eletti dalle supreme magistrature, cinque di elezione parlamentare). Dove, giocoforza, diminuisce in quantità la capacità della Corte, privata di un giudice, di rendere giustizia costituzionale. Dove a fine anno, in attesa dell’elezione “a pacchetto”, il collegio scenderà a undici giudici, soglia sotto la quale – per legge – non può svolgere le proprie funzioni.
Non importa, in altri termini, il rispetto della legalità costituzionale, a fronte della volontà della Presidente del Consiglio di «dare le carte», come ha rivendicato nella conferenza stampa del 4 gennaio scorso. Testuale: entro fine anno, «il Parlamento, che oggi ha una maggioranza di centrodestra, deve nominare quattro giudici della Corte costituzionale. […] Non credo si possa dire che se una maggioranza di centrodestra esercita le stesse prerogative che la sinistra ha esercitato, senza guardare in faccia a nessuno, questo possa essere considerato una deriva autoritaria. Penso che sia piuttosto una deriva autoritaria considerare che chi vince le elezioni, se non è di sinistra, non abbia gli stessi diritti degli altri».
Curiosa giustificazione: a brigante, brigante e mezzo. Come se le violazioni costituzionali si elidessero reciprocamente invece di sommarsi, raddoppiando in gravità.
4. Con il suo garbato «invito», formulato però «con determinazione», il Capo dello Stato rompe il giocattolo con cui Governo e Parlamento si stanno baloccando, ignorando le regole costituzionali del gioco.
Le sue parole, cesellate una ad una, sono adamantine. L’attesa del giudice costituzionale mancante è «lunga» e va interrotta «subito», perché si traduce in un «vulnus alla Costituzione», cioè – a un tempo – in una ferita e in un’offesa alla Carta fondamentale. Ingiustificabile è attendere il futuro pacchetto di nomine di giudici costituzionali perché, «anche quando se ne devono scegliere diversi contemporaneamente», ognuna è «una scelta rigorosamente individuale». Non si tratta, infatti, di individuare «un gruppo di persone da eleggere», semmai di «una singola persona» da designare non per il suo profilo politico, ma perché «meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio, di assumere quell’ufficio così rilevante».
Sono parole ricalcate dalla Costituzione, cui è estranea una concezione proprietaria («Tre a noi, uno a voi») dei posti presso la Corte costituzionale.
5. Senza reticenze, il Capo dello Stato indica nel Parlamento il responsabile del vulnus costituzionale denunciato. La chiamata in correità ha obbligato il Presidente della Camera Lorenzo Fontana, quale presidente del collegio elettorale, a un’iniziativa risolutiva: la convocazione a cadenza settimanale del Parlamento in seduta comune, con la riserva in ogni caso di procedere – ove necessario – a votazioni continuative una volta al giorno. Non prima di settembre, però, in ragione di un calendario parlamentare estivo giudicato troppo compresso.
Apprezzabile è il cambio di passo, molto meno il suo ritmo e il suo rinvio: la violazione costituzionale dura da troppo tempo e non va in vacanza. Andrà poi evitato che l’accelerazione si riveli mero camouflage procedurale.
Nei sistemi democratici, «i Parlamenti muoiono per suicidio» (Luciano Violante): allocare sostanzialmente nel Governo le proprie prerogative costituzionali è tra i modi più sbrigativi per farla finita. Vedremo se deputati e senatori saranno capaci di un sussulto di autonomia politica. O se, invece, preferiranno guardare altrove, tradendo la propria funzione.