La sfida per la Casa Bianca
Kamala Harris: chi è la vice di Joe Biden pronta a sfidare e battere Donald Trump ‘Il Deportatore’
Potrebbe essere lei l'asso nella manica del Partito Democratico
Editoriali - di Piero Sansonetti
L’altra sera Donald Trump ha pronunciato il suo discorso di accettazione della candidatura alla Casa Bianca. Gli osservatori dicono che ha impresso una svolta moderata alla sua campagna elettorale. Che si è offerto come presidente di tutti gli americani. Confesso che non ho capito bene in cosa consista questa nuova moderazione. Ha attaccato in modo feroce sia Biden sia Kamala Harris, che forse prenderà il posto del Presidente in questi ultimi mesi di campagna elettorale. E poi ha lanciato la sua parola d’ordine vincente: “realizzerò la più grande deportazione della storia”. Trump è convinto che la parola deportazione – che di solito viene usata come esempio semplice di crimine di Stato (Clinton fece la guerra a Milosevic per la deportazione dei croati) – sia invece un valore da difendere, un pezzo forte dell’american way of life.
C’è da tremare. E poi c’è da sperare. In che cosa? Nella possibilità che Kamala Harris prenda il posto di Biden nella campagna elettorale e che riesca a contrapporre all’idea dell’America reazionaria, un’idea più accogliente, meno barbara. Che assuma davvero i vecchi principi del kennedismo, del rooseveltismo, della politica democratica aperta al futuro e ai valori sociali. Kamala è condannata a perdere? E chi lo ha detto? Kamala Harris può diventare presidente degli Stati Uniti? Beh, se può diventare presidente Donald Trump non si capisce perché non potrebbe farcela Kamala. Lei assomiglia a Clinton, o a Bush, o ad Eisenhower, e naturalmente a Obama, molto di più di quanto gli assomigli Trump.
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È una persona colta, ha grande esperienza, è una politica di professione. Trump non ha nessuna di queste doti. Dicono che Trump potrebbe riportare in alto il prestigio degli Stati Uniti. E perché? E come? Gridando che farà “la più grande deportazione della storia”? (Probabilmente lui non sa che Clinton fece la guerra a Milosevic perché sostenne che stava realizzando una deportazione. Nel mondo civile la deportazione è considerata un crimine).
Il prestigio degli Stati Uniti è precipitato durante i quattro anni della presidenza Trump. E neanche Biden, va detto, è riuscito a risollevarlo.
Kamala Harris se verrà eletta sarà la prima presidente donna, la prima presidente donna nera, la prima di origini indiane e giamaicane. Trump se verrà eletto sarà solo il presidente più anziano della storia degli Stati Uniti. Non è un difetto essere anziani, anche se è il motivo per il quale è stato spazzato via Biden. Il difetto non è l’anzianità: è la trumpitudine. Kamala è nata in California nell’ottobre del 1964. Avrà giusto sessant’anni quando si voterà, in novembre. Un mese dopo la sua nascita negli Stati Uniti si tennero le elezioni presidenziali per scegliere l’erede di John Kennedy, che era stato ucciso a fucilate giusto un anno prima a Dallas. Credo che fu l’elezione più plebiscitaria del Novecento.
Lyndon Johnson, presidente in carica (aveva assunto per un anno la presidenza in quanto vice di Kennedy) raccolse il 62 per cento dei voti ed ebbe dalla sua parte quasi 500 grandi elettori contro i 50 conquistati dal suo competitor, il repubblicano Barry Goldwater. Era iniziata da poco la guerra degli americani in Vietnam. In agosto, quando Kamala non era ancora nata, c’era stato l’incidente del Golfo del Tonchino: l’equipaggio di una nave americana, condotta dal padre del futuro senatore McCain, sostenne di essere stata attaccata da aerei nordvietnamiti. Non era vero. Però che non era vero si seppe con certezza mezzo secolo dopo. In quei giorni la parola degli americani valeva cento volte quella di Ho Chi Minh. E Johnson prese spunto da quel falso incidente per iniziare a riempire il Sud del Vietnam di soldati americani, decisi a invadere il Nord e far fuori i comunisti di Ho e del generale Giap, che 11 anni prima, con la battaglia di Dien Bien Phu avevano sconfitto i francesi e li avevano rigettati al mare.
Sapete come finì quella spedizione, dopo 11 anni. Con gli ultimi americani che lasciavano Saigon aggrappati ai pattini di un elicottero, inseguiti dai soldati del generale Giap. Johnson affrontò le elezioni del ‘64 da democratico di sinistra. Il Vietnam era ancora solo agli inizi. Johnson aveva firmato in luglio il Civil Right act, una legge importantissima che cancellava la vecchia legge razzista, non scritta, che gli americani chiamano la legge del Jim Crow, e avviava una politica rigorosa antirazzista e di desegregazione. Si era presentato alle elezioni con un programma che si chiamava “Great Society” il quale prevedeva – seriamente – l’abolizione della povertà e per la prima volta introduceva l’idea del reddito di cittadinanza.
Goldwater gli si contrappose con una politica segregazionista e proponendo l’uso dell’atomica contro Hanoi. Fu spazzato via, Goldwater, che poi, da anziano, e da senatore dell’Arizona, cambiò radicalmente le sue posizioni e diventò il repubblicano più di sinistra che si sia mai visto negli Stati Uniti (la sua conversione fu trainata da un nipotino dichiaratamente gay). Questa battaglia tra Kamala e Donald oggi appare un po’ come il rovesciamento dello scontro del ‘64. Allora l’America correva a sinistra, spinta dai neri, da Luther King, dal Black Panther, dagli studenti che sentivano già il profumo del ‘68. Oggi, a occhio, la situazione è del tutto opposta. È l’America reazionaria che alza la testa. E si allinea dietro il pugno e il ghigno e il filo di sangue sul volto di Trump.
I Repubblicani sono un pianeta complicato. Anche un po’ camaleontico. Sono stati il partito di Lincoln, che ha debellato lo schiavismo e trascinato l’America nella modernità. Mentre i democratici che gli si opponevano, negli Stati del Sud, indulgevano nella nostalgia e accarezzavano il Ku Klux Klan. Poi i repubblicani sono diventati il partito guerresco, duro e puro di Teodoro Roosevelt, ai primi del Novecento (Teodoro, non Franklin). Poi il partito moderato e a tratti persino un pochino socialdemocratico di Eisenhower e anche di Nixon. Intendiamoci: Nixon, come Johnson, fu feroce e tremendo in Vietnam (e, come Johnson, ce le prese). Ma in politica interna era uno moderno, sociale, riformista. Fece molto contro il razzismo e la povertà.
I “food stamp”, le “affirmative action”. Ho sempre pensato che sia stato fatto fuori da una congiura reazionaria dell’Fbi nell’estate del 1974 (corre in questi giorni il cinquantesimo anniversario). Il Watergate, interamente guidato dai servizi segreti (il famoso giornalismo d’inchiesta si limitò a mettersi disciplinato a disposizione dell’Fbi) fu una operazione per demolire i repubblicani moderati e spianare la strada alla rivoluzione liberista che, sei anni più tardi, sarà guidata da Ronald Reagan. Operazione perfettamente riuscita. Già, e appunto il reaganismo è il quarto volto del repubblicanesimo. Il più recente e quello che ha influenzato i destini del mondo alla fine del secolo scorso e all’inizio di questo.
Trump è il quinto scenario. Una iena di destra, reazionaria, incolta, semplicistica, sovranista, isolazionista, con un solo aspetto interessante: l’isolazionismo della potenza più guerresca del mondo, talvolta, può favorire la pace. E paradossalmente la campagna elettorale che forse sta per iniziare ora con la discesa in campo della Harris potrebbe anche giocarsi in modo decisivo sulla guerra e sulla pace. Bisognerà vedere che posizione vorrà prendere Kamala, che se sarà candidata si sgancerà dalle ipoteche di Joe e potrà muoversi più liberamente. Che ruolo giocherà in Medio Oriente? Riuscirà a tenere insieme i voti arabi e quelli degli ebrei di sinistra? Sarà capace di fare intravvedere una soluzione per la guerra in Ucraina?
Kamala Harris, state attenti, non è una sprovveduta. Ha una carriera lunga alle spalle. Ha vinto molte elezioni. È stata la prima donna Procuratore generale in California (carica elettiva, negli Stati Uniti), è una delle due sole donne nere elette in Senato nella storia degli Stati Uniti, non è troppo indietro nei sondaggi. Ha condotto battaglie importanti per la sanità pubblica, per il welfare, a favore degli immigrati. Sarà finalmente una campagna elettorale chiara. Donald e Kamala rappresentano due idee di America del tutto opposte. Gli elettori potranno dividersi e contarsi. E magari anche qui da noi i politologi dovranno smetterla di dire che destra e sinistra non esistono più.