Lo stato della letteratura
Premio Strega: dove sono finiti gli scrittori? Da nevrotici, anti-borghesi e ribelli ai salotti Verdurin
I finalisti del Premio letterario, tutti griffati, sorridenti, a loro agio, soddisfatti di sé. Pronti a fare una gara di cucina da un momento all’altro. Per dirla con Fulvio Abbate la nostra è una società letteraria ormai terminale
Cultura - di Filippo La Porta
Giudicando dalle polemiche di questi giorni sulla “società letteraria” (e la sestina dello Strega), a me pare che non si rifletta abbastanza su un fatto decisivo: e cioè quanto e come sia cambiata la figura dello scrittore nella nostra società, perfino oltre la evidente spettacolarizzazione della letteratura. Lo scrittore non è più un ribelle, un disadattato, un eccentrico, un tipo refrattario alla normalità – come pure è stato almeno dal romanticismo in poi – , piuttosto si presenta come una persona felicemente appagata di sé, integrata nel proprio ruolo sociale, in perfetta armonia con il mondo com’è, in accordo con i suoi idoli sociali. Non abita un sottosuolo, non viaggia fino al termine della notte e non ha neanche più bisogno di andare in analisi. Da intrattabile Bartleby è diventato l’ospite più ambito del salotto Verdurin, autoironico e abile a promuoversi!
Una “mutazione” che bisognerebbe riconoscere onestamente, al di fuori di ogni moralismo. E che andrebbe resa nota a tutti quei giovani che aspirano a diventare scrittori pensando ancora di compiere un gesto anticonformista, convinti che l’arte sia una “malattia”. Tempo fa un amico, critico letterario, volle confessarmi con malcelato senso di orgoglio di aver scritto un romanzo. Non potei che commentare “Ti facevo più snob”! Negli anni scorsi – in verità – qualcuno si ostinava a coltivare il mito decadente dell’artista bohémien, inconciliato, esule in patria (quanti maledetti Rimbaud del Pigneto…), ma è un fenomeno del tutto residuale. Torniamo sul Premio Strega, che – , benché “istituzionale” – ha almeno il merito di agitare un poco le acque solitamente chete delle patrie lettere. Sorvoliamo sull’assenza di Sangiuliano, l’unico ministro, a memoria d’uomo, che se solo ne viene evocato il nome – da un presentatore TV – fa ridere l’intera platea! Non intendo essere irriverente, e può darsi che la platea del Ninfeo fosse composta da perfidi rappresentanti del mondo radical chic, ma al suo posto qualche domanda me la farei (per usare l’artificio retorico preferito dalla premier). Ripassiamo invece gli ultimi fuochi d’artificio giornalistici.
Aldo Grasso scrive un acuminato trafiletto in cui però la parte davvero bella, e contundente, consiste in un’ampia citazione da Fulvio Abbate. Questi parla di società letteraria “ormai terminale, mortuariamente soddisfatta di sé”. Esagera? Probabilmente sì, ma se ad Abbate togli le esagerazioni lo depotenzi! È il Tom Wolfe della nostra società. Fustigatore indefesso dell’amichettismo, andrebbe considerato il garante della Costituzione! Le sue provocazioni sono scintillanti invenzioni sociologiche. Soffermiamoci allora su quel “soddisfatta di sé”. Ecco, gli scrittori vestiti dagli stilisti apparivano tutti molto soddisfatti di sé. Euforicamente soddisfatti. Neanche un’oncia di imbarazzo. Possibile? Alcuni li conosco personalmente: non posso immaginare che Tommaso (Giartosio) e Donatella (Di Pietrantonio) non sentissero qualche disagio dentro i panni disegnati per loro da Etro e Gucci. Ma credo che questo disagio non poteva neppure manifestarsi.
In questo caso lo status – dunque quella mutazione cui accennavo – prevale su tutto il resto, allo Strega lo “stile” dell’abbigliamento ha sempre avuto una parte centrale, ma in quel caso davvero lo stile era l’uomo (o la donna), nessun altro disegnava i vestiti per gli scrittori. Ad esempio le camicie militari o bianche di lino (di taglio maschile), unite ai pantaloni e ai grandi occhiali, erano per Oriana Fallaci l’esatto equivalente della sua scrittura. Bisogna ficcarselo in testa una volta per tutte: lo scrittore non è più il Tonio Kroger di un racconto di Thomas Mann dei primi del ‘900: nevrotico, sempre fuori posto, irrequieto, condannato a complicare ogni cosa, capace di ballare solo in modo goffo la quadriglia. Insomma: un “borghese su strade sbagliate”, “fuorviato dall’arte”(gli dirà l’amica pittrice). Tutto al contrario: lo scrittore oggi è un borghese messo sulla strada maestra, conciliato con la realtà, incline a semplificare le cose, totalmente a proprio agio in società (non sfigurerebbe neanche come ballerino), tra un archistar e un pubblicitario di successo. Non si tratta, ripeto, di dare giudizi morali ma solo di descrivere lucidamente questo passaggio storico, questa mutazione irreversibile.
Azzardo una profezia. Tra un anno prevedo che agli autori della cinquina finalista faranno fare una gara di cucina, con Cannavacciuolo come giudice. Dopo gli stilisti gli chef!!! E, interrogati sull’opportunità di una cosa del genere, certo replicherebbero tutti “Perché no?”. Già, perché no? Non vengono nemmeno in mente le obiezioni. Dai, può essere divertente, sfizioso, così diverso dal solito, è un sano antidoto alla pesanteur dell’impegno e al troppo tempo passato in solitudine con la propria scrittura (Orwell diceva che un intellettuale potrebbe trovare un argomento anche a giustificazione della tortura, figuriamoci per giustificare la partecipazione a una Chef Academy!). Cannavacciuolo declamerà il vincitore gastronomico mentre Gifuni o Sonia Bergamaschi leggeranno i brani sul cibo di Proust, Karen Blixen e Camilleri. Ragionando sulla mutazione dello scrittore – ormai un Tonio Kroger guarito dalla nevrosi – a me sembra una figura felicemente inattuale la poetessa Alida Airaghi che – pur finalista allo Strega Poesia – si è autoesclusa dalla cinquina, e dalla cerimonia. Non avrebbe mai sopportato, tra l’altro, di indossare un Christian Dior! Bagattelle, certo. Né Alida Airaghi – autrice di un bella silloge di versi civili (Quanto di storia) – ha voluto dare alcun significato civile alla sua scelta. Mica è un gesto “antifascista”! Solo un piccolo grande segnale di disallineamento. Questo sì.