I 12 finalisti

Premio Strega: dov’è finito lo stile? Di cosa parlano i 12 libri finalisti, più temi che scrittura

A una prima analisi contenutistica, le opere restituiscono molte delle tensioni contemporanee. Ma i temi non bastano a fare un buon libro: serve la scrittura. E tranne poche eccezioni ...

Cultura - di Filippo La Porta - 14 Aprile 2024

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Premio Strega: dov’è finito lo stile? Di cosa parlano i 12 libri finalisti, più temi che scrittura

Ogni anno sui 12 del Premio Strega si scatenano esercizi più o meno probabili di sociologia, per capire se questi libri rispecchiano – e in che misura – tendenze, mode, idee, tonalità emotive del nostro presente e della nostra società. Insomma lo Spirito del Tempo.

Ripassiamone un po’ alla rinfusa i temi: molte storie di donne (vittime ma anche eroine, orfane e protagoniste) tra provincia e metropoli, molta Storia tra impero bizantino e i nostri anni di piombo, catastrofe climatica, Covid ed epidemie, mondi postumani.

Si potrebbe riassumere così: al centro la violenza, anzitutto sulle donne, sugli esseri più deboli, privi di difese, poi ampliando l’orizzonte la “violenza” insita leopardianamente nella natura (matrigna crudele, o nel migliore dei casi dura nutrice).

Certo, noi abbiamo contribuito a far esplodere il virus, a fargli compiere il salto di specie, però verosimilmente non l’abbiamo prodotto noi (salvo che nelle paranoie complottiste): i batteri – sia buoni che cattivi – sono il 90% delle cellule del nostro corpo, e insomma la natura è del tutto indifferente verso la nostra sofferenza.

Dunque, lo stato d’animo prevalente è la paura. Proprio quella paura che secondo Hobbes sta all’origine della politica (lui ne era ossessionato, fin da quando seppe che la madre per partorirlo aveva rischiato di morire), e che oggi, opportunamente manipolata, è il brodo di coltura dei populismi reazionari sparsi per il globo.

In nome della paura, cioè della sicurezza, siamo pronti a cedere diritti, libertà personali. Sarà pure vero che il mondo contemporaneo, rispetto a quello primitivo, è assai meno violento, come sostengono storici e paleontologi (da Pinker ad Harari), almeno proporzionalmente.

Così come, al netto della Russia di Putin, oggi nessuno Stato pensa alla guerra come “normale” soluzione di problemi e conflitti interni. Però la violenza sommersa, latente è comunque nell’aria. Tempo fa sono andato a parlare di Dante in una quinta elementare.

Ho chiesto ai ragazzini della classe di dirmi qual è secondo loro il peccato capitale più grave nella Divina commedia: non mi hanno detto la superbia – come risulta dalla gerarchia abbozzata da Virgilio nel Purgatorio – ma, sorprendentemente, l’ira. Sono spaventati da un mondo di adulti che sentono pieno di rabbia, esplicita o repressa. Basta la sera fare un giro di zapping sui talk show.

Infine. Questi esercizi di sociologia, o antropologia, sui testi letterari, benché legittimi hanno tutti un grave limite. Sono viziati da contenutismo. La letteratura è fatta invece di parole, di buon uso delle parole. Un romanziere usa le parole per creare immagini mentali, non ha altro che quelle.

Per uno scrittore lo stile non è ornamento, sovrapposizione decorativa, ma il principale strumento di conoscenza. In questo senso la letteratura è soprattutto dire una cosa, qualsiasi cosa, in modo “interessante”, perché dentro quella cosa scopre una verità ulteriore – universale, benché più nascosta – che ci riguarda tutti.

Nei 12 dello Strega la presenza di uno “stile”, di una lingua espressiva oltre che comunicativa di una voce personale – cioè la vera differenza tra letteratura e ciò che non lo è (articoli di giornali, sceneggiature, diari, inchieste…) – a me sembra piuttosto rara e in fondo non più richiesta.

Secondo la storica dell’arte newyorchese Rosalind Krauss, che definisce il nostro tempo artistico come “età postmediale”, è così. Che significa? In ogni campo, in ogni linguaggio, ci troviamo molto al di là del medium di quel linguaggio, almeno da quando Pollock rinunciò a tela e cavalletto: oggi un musicista potrebbe non saper leggere lo spartito (e neanche suonare uno strumento: se premi un tasto hai un arpeggio di chitarra!) ma solo avere dimestichezza con l’elettronica e disporre di un buon orecchio, un romanziere potrebbe limitarsi ad avere una potente idea narrativa (quasi solo un “trattamento”) che poi sviluppano gli editor (alcuni scrittori di successo pare che suggeriscano solo i plot, che altri eseguiranno), un fumettaro potrebbe ignorare l’arte del disegno (come del resto un architetto) affidandosi a programmi di grafica sofisticati…

Non voglio sembrare ingeneroso. Parlo solo di una tendenza generale, di una (relativa) svalutazione del medium della scrittura all’interno della letteratura contemporanea. Nell’elenco dei 12 finalisti ci sono almeno quattro o cinque eccezioni (anzitutto Voltolini e Giartosio, artigiani squisiti della lingua, poi la vocazione affabulatoria di Di Pietrantonio travasata in una prosa densissima…), ma chissà se saranno valorizzate dalla vasta comunità degli “Amici della Domenica”.

14 Aprile 2024

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