La morte 70 anni fa

Frida Khalo, la vita come opera d’arte della pittrice messicana: fiore carnivoro sfregiato dal destino

Poster, amuleto, abiti etnici e monociglio, il busto a stringerle il ventre come amuleto: non c’è femminista che non pensi a lei come santa laica guerriera che ha fatto della sua vita un’opera d’arte

Cultura - di Fulvio Abbate

13 Luglio 2024 alle 19:03

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Frida Khalo, la vita come opera d’arte della pittrice messicana: fiore carnivoro sfregiato dal destino

Frida, che il 13 di luglio di settant’anni fa lasciava questa nostra terra. Frida, pittrice, poster, amuleto vivente, luce e ombra di se stessa, brilla ormai da decenni sull’altare della grazia, del glamour. Volto perfetto per arredare visivamente certo sentire femminile. Le copertine di Vogue o Vanity Fair, cuscini e diari. Frida che soprattutto vive nella sua biografia, drammatica e frastagliata, totemica, assai meno nel palmarès della storia dell’arte. Immaginarla accanto ai maestri della pittura è cosa impropria, un eccesso. Frida appartiene semmai alla borsa e al fixing delle leggende…
Testa da pitecantropo sdraiato, nido di cacatua e ara, testa, volto che innalzava fiori carnivori e poi, su tutto, un monociglio scimmiesco, come divinità grottesca e insieme desiderabile del Messico più infiammato, crocifisso ai propri colori acuminati, pigmento di luce e di morte. Fu Frida Kahlo una modesta, quasi segretamente privata pittrice, dalla mediocre mano, una studentessa d’accademia mancata, lì a contemplare e ritrarre sé stessa, incapace tuttavia di raggiungere il pozzo artesiano delle cose, forse perfino la botola del dolore che si fa icona, anzi, “veronica”, vera-immagine, reliquia del proprio soma sfregiato dal destino.

Il fatto che Madonna, Lady Gaga o ancora le ragazze, le fanciulle, le pischelle che aspirano a danzare nude, il pareo come vessillo, negli spot, perfino gli orecchini a replicarne il volto iconico, con tutte a brindare lì sotto gli spinnaker, possano apprezzarla, perfino ritenendola una sorta di Picasso al femminile, vagina in fronte, amuleto della dolente grazia aggressiva femminile, nulla toglie, anzi, non la assolve dalla sua modestia, tecnica, poetica, pittorica. Resta la sua vita a custodire un proprio vangelo personale di sangue e mestruo, una cristologia femminile, la spina dorsale spezzata, metafora di corsa e cammino interrotti… Frida e la sua colonna vertebrale offesa, ferita, e così mostrata sulla tela come tempio puntellato dai chiodi di una impossibile resurrezione medica, croce verticale, supplizio, anchilosi perenne, il letto come luogo di tortura, come orizzonte, tortura… D’istinto, ritrovandone ancora il volto, vengono in mente le parole di un poeta rivoluzionario, Vladimir Majakovskij, altrettanto caro ai coniugi Rivera, costui che così diceva: «Aiuto, sono crocifisso al foglio con i chiodi delle parole».

I chiodi, così sia, i chiodi di Frida, e poi lei davanti all’abbraccio paterno del suo Diego, un padre-amante adottivo, corpo ingombrante, moloch della pittura muralistica di un Messico pagano sempre in rivolta, così quando l’arte riteneva per dovere militante di innalzarsi sui muri del mondo, sulle palizzate dell’agit-prop, anzi, sulle muraglie del popolo, così da mostrare se stessa alle masse, indicando loro il cammino per l’ennesima rivoluzione, sotto l’apologetica luce di Marx e Lenin, e forse anche di Trotskij. Infine di Stalin. Se è vero che dopo un’infatuazione trotskista Frida e Diego si inginocchieranno davanti al Martello di Dio sovietico, ma questa è già un’altra meschina storia. L’album fotografico e pittorico di famiglia la narra accanto al Gigante Diego, sebbene lei, Frida, esattamente Frida, manterrà comunque, ora e sempre, una cifra intimistica, facendo di se stessa, del proprio volto, del proprio mezzobusto un San Sebastiano al femminile, Frida martire trafitta dalle frecce del proprio mestruo mancato, Frida con un busto a stringerle il ventre come un cilicio, anima di gesso e metallo, un busto, un corpetto da trasfigurare esso stesso in opera, come fosse una tela da decorare, magari ora con la grande falce e martello della luminosa e insieme oscura fede comunista ora con i chiodi di un destino che la costringe a vedere il mondo dalla prospettiva orizzontale di un letto.

A proposito di fede comunista, Frida e Diego blandiranno Trotskij, comporranno infine insieme a lui e ad André Breton i comandamenti del Surrealismo, dove sogno e rivoluzione brillano nel medesimo domicilio ideologico. Ma forse c’è anche qualcosa di più, scabrosi dettagli delle singole autobiografie: se andiamo infatti a cercare negli album fotografici del fondatore dell’Armata Rossa, profeta ormai sconfitto e disarmato in esilio a Coyoacán, la sua casa-fortilizio, tra i cactus e l’agave, sobborghi di Città del Messico, ci sarà modo di trovare uno scatto domenicale dove Frida e Diego figurano, impettiti, tra i cactus, accanto al vecchio Leone e alla moglie Natalia, peccato che, a guardar bene, il volto di lei, proprio il volto di Frida, appaia sfigurato, violato da una punta acuminata di lapis, esatto, qualcuno si è accanito con astio pervicace proprio sul volto della nostra eroina pittrice. Intendiamoci, Trotskij, lo ha raccontato il suo segretario Jean van Heijenoort, era un invasato di sesso, perfino nei momenti in cui, braccato dai sicari di Stalin, gli stessi che alla fine riusciranno a conficcargli una piccozza nel cervello, avrebbe dovuto pensare alla sua IV Internazionale, metti, anche in quei momenti, tuttavia Lev Davidovic, mai veniva abbandonato dal pensiero della grazia femminile, così anche la vulva di Frida verrà sfiorata dai baffi e dal pizzetto del teorico della rivoluzione permanente… Ma forse mi sono perso un po’ per strada: sarà proprio Natalia, la compagna d’esilio del rivoluzionario, a sgraffiare, a sfigurare con la punta dell’astio e del risentimento il volto della dirimpettaia, dell’ospite Frida, la “scimmia” adulatrice.

Già, il volto di Frida: il monociglio, gli abiti etnici, quasi a voler rendere omaggio alla grande anima tessile messicana, i fiori conficcati nella crocchia, come aureola strappata alla giungla dello Yucatàn, un volto in sé già perfetto per farsi icona, santino, orecchino, màndala, lanterna magica di una femminilità irripetibile, mutilata, perturbante, la nudità sotto la porpora, l’eros della donna scimmia incarnata nell’umano. Non c’è femminista modello standard che non pensi a Frida come santa laica guerriera privilegiata, che non la immagini in armi nella sua trincea ora da Nostra Signora di Guadalupe ora da Grimilde, sì, nei loro occhi c’è Frida che interroga lo specchio delle sue brame… Cosa supplicava allo specchio del destino la nostra, la loro Frida? Forse, innanzitutto un miracolo che facesse volare via i chiodi del San Sebastiano al femminile, la vulva anch’essa dolente sotto il minuscolo panneggio che ne ricopre i fianchi e il bacino, i chiodi che avrebbero dovuto fissare alla terra messicana la sua colonna vertebrale, e ancora che il letto, il letto-altare-offertorio di Frida potesse trasformarsi in un astro volante, se non proprio tappeto, un vettore che la portasse nell’altrove della diagnosi clinica, del comunismo, del suo Diego, padre-amante-figlio-marito-mostro; si narra che per partecipare a un vernissage, come fosse stata Cristo immobile nella sua teca quaresimale, Frida ebbe modo di farsi trasportare lontano da casa con tutto il suo letto di dolore, con lei, Frida, lì compiaciuta, come fosse già composta nella primavera della sua camera mortuaria, pronta per il sepolcro, per un obitorio multicolore, se è vero che nella cultura messicana perfino i teschi hanno vita nel quotidiano che attende la morte, e intanto battono le nacchere dei propri denti, proprio loro, le “calaveras”, come mostra il nume iconico della pittura che accompagna la rivoluzione di un Emiliano Zapata e di un Pancho Villa, Josè Guadalupe Posada.

Povera Frida, lì nel suo letto, come ghirlanda vivente, come origamo, come scimmia baffuta e insieme Ecce Homo, Ecce Mulier, lì a mostrare il proprio martirio, e quanta magnificenza in quel monociglio, nel trucco, nelle rose ad adornarne i capelli, ma anche, per contrasto, quanti limiti nella sua pittura. Lo abbiamo detto una modesta, una stentatissima naïf, una dilettante un po’ presuntuosa, soprattutto quando ritrae il proprio medico curante, trasfigurandone la fototessera in fototessera, senza che mai si compia il miracolo del realismo magico. Mi dirai: ma anche il Doganiere Rousseau era un modesto pittore, o no? Certo, che sbagliate, il Doganiere custodiva dentro di sé gli acidi visionari che permettono di accedere al dominio di una flora ed una fauna fantastiche, le tele di Frida, nel migliore dei casi, innalzano sui muri di un Messico da emporio una mancata tavola sinottica di ortopedia, ulna, radio, acetabolo, astragalo, vertebra, e qui fa ritorno a noi nuovamente Majakovskij, lui che immaginava un “flauto di vertebre”, peccato che il flauto di Frida mostri un suono di canzone poco più che folkloristica, di un folklore modesto, che non ha mai conquistato la C delle grandi maiuscole poetiche, peccato per lei, peccato per chi continua, ingenuamente, a ritenerla immensa nella sua luce dolente e insieme propria di un fiore carnivoro da glamour ormai hipster. E forse anche per questo ancora la amiamo.

 

13 Luglio 2024

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