Il personaggio
Chi era Esteban Volvov, nipote di Trotsky e testimone del suo brutale omicidio
L’ultimo nipote e l’ultimo testimone di quel terribile omicidio, ordinato da Stalin, compiuto a colpi di piccone davanti a un piccolo scrittoio a Città del Messico
Editoriali - di David Romoli
Il nome di Esteban Volkov, morto due giorni fa in Messico alla bella età di 97 anni, dice poco e lo conoscevano in pochissimi. A differenza di suo nonno, Lev Davidovich Bronstein, meglio noto come Lev Trotsky, uno dei principali tra i grandi rivoluzionari del XX secolo, certamente il più calunniato e vituperato. Ancora alla fine degli anni ‘60, molti anni dopo il XX Congresso del Pcus (il partito comunista russo) del 1956 e la denuncia dei crimini staliniani, nel Movimento Operaio lo si poteva ancora nominare a stento, tanto si era radicata la violentissima campagna diffamatoria scatenata contro di lui da Stalin.
Ancora nel 1934 (Trotzky era ancora vivo), nel suo libro sulla Rivoluzione d’ottobre, Stalin riconosceva la realtà: “Tutto il lavoro di organizzazione dell’insurrezione fu effettuato sotto la direzione del compagno Trotsky. Si può affermare con certezza che il partito è in debito prima di tutti e soprattutto con il compagno Trotsky”. In quel 1934 il partito aveva già iniziato a pagare il suo debito esiliando il benemerito in Kazakhistan nel 1928 e poi espellendolo dall’Urss, verso la Turchia, l’anno seguente. Nel ‘33 l’ex comandante dell’Armata Rossa caduto in disgrazia era in Francia, ma con il divieto di risiedere a Parigi.
Nel 1949 quell’imbarazzante riconoscimento fu sbianchettato dal libro di Stalin. Il suo nemico era stato cancellato dalla faccia della terra 9 anni prima, a Città del Messico dove era arrivato nel 1937 dopo essere passato dall’esilio francese a quello in Norvegia. Il 20 agosto 1940 l’agente spagnolo del Nkvd (la polizia segreta sovietica) Ramon Mercader, zio di Manuel e Christian De Sica, lo aveva aggredito a colpi di piccozza: la vittima era sopravvissuta solo sino al giorno seguente. Mercader si faceva passare per militante trotskista con la falsa identità di Frank Jacson.
La villa in cui si era trasferito il rivoluzionario, dopo essere stato a lungo ospite di Diego Rivera e della moglie Frida Kahlo, con la quale aveva una relazione, era stata attaccata con le mitragliatrici, il 24 maggio, da una squadra di 20 agenti del Nkvd guidata dal pittore messicano David Alfaro Siqueiros. L’attacco aveva mancato l’obiettivo e la villa era stata trasformata dai trotzkisti in un bunker difeso da squadre armate. Ma la vittima predestinata si fidava del sedicente Jacson, lo fece entrare nel suo studio per discutere un articolo e si ritrovò così indifeso alla mercé del suo assassino, insignito per l’omicidio del titolo di “eroe dell’Urss” ancor prima di essere scarcerato nel 1960, e poi anche dell’ordine di Lenin e della Stella d’oro.
Esteban Volkov, il nipote scomparso due giorni fa, era l’ultimo testimone ancora in vita di quell’assassinio, oltre che custode dell’eredità del nonno. Sei anni fa Volkov aveva inviato a Netflix una petizione, firmata da molti intellettuali tra cui Frederic Jameson, Slavoj Zizek e Nancy Fraser, contro la decisione di trasmettere la serie in 8 puntate prodotta dalla tv russa sulla vita di suo nonno. L’accusa era di falsificare la realtà storica e diffondere un’immagine bugiarda e distorta, funzionale alla propaganda putiniana, di Lev Trotzky. I registi si difesero affermando che nella serie “ci sono alcuni fatti e tutto il resto è finzione ma nulla è stato inventato nel senso della vita di Trotzky e delle sue azioni”.
La fedeltà storica dello sceneggiato è una barzelletta e del resto non era a questo che la produzione era interessata, ma alcuni particolari del prodotto televisivo sono comunque interessanti. Trotzky, notarono in molti al momento dell’uscita della serie in Italia, era descritto quasi come una rockstar, un divo della rivoluzione, e in questo c’è senza dubbio qualcosa di vero e anche di indicativo sui motivi della sua sconfitta dopo la morte del capo dei boscevichi, cioè di Lenin, nonostante fosse per ammissione dello stesso Stalin,“il leader più popolare dopo Lenin”.
Isaac Deutscher, il primo biografo di Trotzky, nota che il rivoluzionario, chiuso nella Fortezza Pietro e Paolo nel 1906, dopo il fallimento della Rivoluzione del 1905-06, sembrava, più che un detenuto politico “un prospero intellettuale occidentale fin-de-siècle in procinto di partecipare a un recevimento ufficiale”. La foto conferma. Il rivoluzionario è elegante, curatissimo pur in cella, altero. La stessa eleganza avrebbe preteso dalle uniformi della sua Armata Rossa. Brillante, intelligentissimo, doannaiolo, Trotzky aveva davvero qualcosa della star.
Lev Bronstein era nato il 7 novembre 1879 in Ucraina. Veniva da una molto agiata famiglia ebrea e aveva studiato matematica a Odessa prima di abbandonare l’università per farsi rivoluzionario di professione, prima populista, poi, in parte su spinta della prima moglie Aleksandra Sokolovskaja, marxista e socialdemocratico.
Mandato in esilio in Siberia per la prima volta nel 1900 e dopo aver scelto per nome quello di uno dei suoi carcerieri, Trotzky, aveva seguito la trafila dei rivoluzionari di quell’epoca, passando da una città all’altra a partire da Londra dove aveva conosciuto Lenin che aveva cercato invano di farlo entrare nella direzione del suo periodico Iskra, di cui era una delle penne più brillanti. Dopo la scissione tra bolscevichi e menschevichi del 1903 era rimasto con i menscevichi avversari di Lenin ma presto aveva abbandonato anche loro, pur restando vicino al leader della sinistra menscevica Martov.
Dopo la rivoluzione del 1905, che gli storici considerano oggi esser stata la vera “rivoluzione russa” nel senso proprio del termine, era tornato a Pietroburgo dove era stato l’anima e poi anche formalmente il presidente del Soviet. Fuggito dalla Siberia nel 1907 aveva ripreso il pellegrinaggio in esilio di Paese in Paese, con la seconda moglie Natalia Sedova, Lo scoppio della rivoluzione nel febbraio 1917 lo aveva raggiunto a New York, dove viveva nel Bronx a stretto contatto con Aleksandra Kollontaj, non ancora bolscevica, e Nicholaj Bucharin. Tornato in Russia era diventato uno dei principali leader bolscevichi, anche se si sarebbe iscritto al partito solo nel luglio 1917.
Presidente del Soviet di Pietroburgo nei giorni dell’insurrezione, ministro degli Esteri nelle trattative per la pace separata di Brest-Litovsk con la Germania, capo dell’Armata Rossa nella guerra civile che a un certo punto fu combattuta addirittura su 16 fronti, Trotzky sembrava destinato a ereditare la guida dell’Urss dopo la morte di Lenin. Stalin seppe sfruttare i suoi punti deboli. Trotzky era un grande oratore, il principale teorico marxista tra i bolscevichi, un intellettuale cosmopolita che parlava fluentemente diverse lingue sia pur con forte accento russo ma tutto ciò lo rendeva sospetto agli occhi dei militanti del partito che lo considerarono sempre un estraneo, diventato bolscevico tardi, con alle spalle scontri anche molto duri con Lenin nei primi anni del secolo.
Era anche arrogante, altezzoso, consapevole della propria superiorità ma inetto nelle trame di corridoio nelle quali eccelleva Stalin. Come capo dell’Armata Rossa aveva richiamato in servizio gli ufficiali dell’esercito zarista e i vecchi soldati bolscevichi non gliel’avevano mai perdonata nonostante la vittoria. Era stato tra i fautori del Terrore Rosso e aveva represso nel sangue la rivolta dei marinai di Kronstadt, da sempre l’avanguardia della rivoluzione: Stalin adoperò strumenti che il suo nemico aveva contribuito a forgiare. Trotzky, in fondo, era davvero in parte quello descritto dalla serie tv bugiarda: una star della Rivoluzione destinata a crollare in un sistema nel quale il potere era in mano agli anonimi burocrati del partito.