Parla l'ambasciatore

Intervista a Ferdinando Nelli Feroci: “Meloni al bivio europeo: leader di FdI o dell’Italia”

«Il no e le astensioni sulle nomine sono un gesto clamoroso. Se la premer volesse far prevalere l’interesse nazionale su considerazioni di schieramento politico, avrebbe il massimo della convenienza a sostenere Von der Leyen. Una linea di opposizione metterebbe il commissario designato dall’Italia a rischio bocciatura»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

4 Luglio 2024 alle 12:30

Condividi l'articolo

Intervista a Ferdinando Nelli Feroci: “Meloni al bivio europeo: leader di FdI o dell’Italia”

L’Europa la conosce come le proprie tasche. L’Europa di Bruxelles, dei “giochi diplomatici”, quelli che contano davvero, che orientano politiche e organigrammi. L’Europa post-elettorale. L’Unità ne discute con l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), tra i più autorevoli think tank italiani di geopolitica e politica estera.

Ambasciatore Nelli Feroci, quale Europa è emersa dal voto dell’8-9 giugno, anche alla luce delle manovre in corso per le posizioni apicali nelle istituzioni dell’Unione?
Il voto per il parlamento europeo ha fatto registrare una sostanziale tenuta dei partiti più tradizionalmente europeisti, cioè i popolari, i socialisti democratici, i liberali. Con una crescita abbastanza significativa dei popolari, una riduzione, non particolarmente inquietante, del peso dei socialisti e un po’ più significativa per quel che riguarda i liberali. Insieme, questi partiti possono avere una maggioranza nel Parlamento europeo. Il voto, però, ha fatto registrare anche un significativo aumento dei consensi per i partiti della destra. Partiti che alla luce anche degli sviluppi successivi alle elezioni, continuano ad essere abbastanza divisi tra di loro, tant’è che probabilmente si andrà alla formazione di un terzo gruppo al Parlamento europeo. Ma per quanto divisi, hanno fatto registrare un incremento dei consensi abbastanza importante. L’esito più significativo del voto è stato quello che ha caratterizzato la situazione di due Paesi-chiave: la Germania e, soprattutto la Francia.

Perché?
In questi due Paesi il voto ha segnato una sconfitta molto significativa delle forze politiche che sostengono i governi in carica. In Germania, l’indebolimento della coalizione – Spd, Verdi, Liberali – che sostiene il governo guidato dal cancelliere Scholz, è significavo ma non al punto tale da mettere in discussione la stabilità dell’esecutivo. È verosimile che questo governo possa proseguire fino al termine del proprio mandato, nel 2025.

E in Francia?
In Francia la situazione è molto più complicata e preoccupante. La decisione del presidente Macron di sciogliere anticipatamente l’Assemblea Nazionale e andare immediatamente alle elezioni legislative ha provocato un terremoto politico le cui conseguenze sono ancora da valutare. Tornando all’Europa, si può dire che se gli equilibri complessivi non sono stati drammaticamente rimessi in discussione, preoccupa molto di più la situazione che si è venuta a creare in Germania e, in modo ancor più grave, in Francia, come conseguenza indiretta del voto per il parlamento europeo.

Per restare su Francia e Germania. Il risultato del Rassemblement National in Francia e quello di Alternative für Deutschland in Germania, non sono anche il segnale della rimozione di una memoria storica?
Anche sotto questo aspetto, il dato elettorale in Francia è quello che preoccupa di più. Certamente preoccupa anche l’avanzata relativa dell’AfD, ma in Germania tutto sommato le forze antisistema restano marginali negli equilibri complessivi tra le forze politiche tedesche. In Francia, la situazione è molto più complicata, perché il successo, previsto ma travolgente, del Rassemblement National al primo turno delle elezioni legislative, segna una soluzione di continuità inquietante, se si pensa a quali siano le origini di questa formazione politica. È vero che non è ancora detto che il RN possa avere una maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale, c’è un esito molto incerto del secondo turno. Ma quale che sia l’esito del secondo turno, il segnale politico è molto forte, molto evidente.

Qual è questo segnale, ambasciatore Nelli Feroci?
Quello di un Paese insofferente nei confronti del presidente della Repubblica, per i vari errori che ha commesso. Un Paese segnato da una frattura profonda tra grandi città e piccoli centri, zone rurali. Un Paese che sembra effettivamente aver dimenticato le origini del partito che oggi ha la maggioranza relativa, almeno ad oggi nel Paese se non ancora nell’Assemblea Nazionale.

Per venire all’Italia: il nostro peso oggi in Europa, come emerge dalla partita per le nomine più importanti in ambito sovranazionale, è sempre più gracile, quasi “scheletrico”?
Meloni si è lamentata, e non credo avesse tutti i torti, per essere stata platealmente esclusa dalla scelta sulle nomine ai vertici delle istituzioni dell’Unione Europea. Ha anche compiuto un gesto abbastanza clamoroso, che non ha precedenti nella storia della Repubblica nei suoi rapporti con l’Unione Europea…

A cosa si riferisce?
Un voto contrario o un’astensione su alcune di queste nomine in sede di Consiglio europeo. Ora, però, per Meloni si pone una scelta davvero complicata.

Quale?
Se continuare a cavalcare una postura da leader di partito, proseguendo in un posizionamento all’opposizione di questo gruppo che si è formato ai vertici dell’UE, cercando magari di collocarsi alla testa di uno schieramento di forze di destra che figurerebbero nei prossimi equilibri in Europa all’opposizione, oppure rientrare nei ranghi, nei giochi, assumendo un atteggiamento più costruttivo, meno protestatario, concorrendo in qualche modo alla elezione della presidente della Commissione in occasione del voto al Parlamento europeo, Se volesse effettivamente far prevalere l’interesse nazionale su considerazioni di schieramento politico, avrebbe il massimo della convenienza a sostenere la Von der Leyen – oggi la candidata più forte, anche per effetto dell’indebolimento di Macron e di Scholz –, allo scopo di mantenere un rapporto collaborativo con la prossima Commissione e ottenere un portafoglio di peso per il commissario italiano. Con un’aggiunta: qualora la presidente del Consiglio decidesse per la prima opzione, cioè per una linea di opposizione, anche dichiarata pubblicamente, il Commissario europeo designato dall’Italia, chiunque esso sia, rischierebbe, in occasione dell’audizione al Parlamento europeo, di non passare. Sappiamo bene che il Parlamento europeo quando esamina i commissari, li valuta sicuramente sulle loro competenze e capacità rispetto al portafoglio che è stato assegnato, ma li valuta anche sulla base di considerazioni di schieramento politico. Basta ricordare l’episodio della bocciatura di Buttiglione, che era chiaramente un segnale del Parlamento europeo all’epoca nei confronti del governo Berlusconi.

Tutte queste discussioni, manovre, giochi di potere, avvengono come se fossimo in un tempo di sicurezza, di stabilità, di pace. Invece, siamo dentro un disordine globale segnato da guerre, dall’Ucraina al Medio Oriente, per non parlare dei tanti conflitti “dimenticati” in Africa.
È una considerazione giusta. Oggi più che mai, l’Unione Europea, e quando parlo di essa mi riferisco alle sue istituzioni, ai suoi vertici ma anche ai governi che partecipano ai processi decisionali, avrebbe bisogno di unità, di solidarietà, di chiarezza d’intenti, per recuperare per l’Europa una collocazione in un quadro internazionale dentro il quale siamo sempre più contestati dai dati, dai fatti: una Europa che perde di peso specifico quanto alla sua partecipazione al Pil complessivo, quanto alla popolazione, in continua decrescita, quanto alla partecipazione al commercio internazionale. Tutto questo non fa sperare bene per l’avvio della prossima legislatura, perché il rischio di una legislatura europea in cui aumenta la polarizzazione tra governi e anche formazioni politiche, rischia di indebolire ulteriormente un’azione internazionale dell’Unione che già stenta a farsi riconoscere sulla scena internazionale.

Quando si parla di disordine globale, è inevitabile fare riferimento a ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, la iperpotenza mondiale, almeno sul piano militare. Siamo nel pieno della campagna presidenziale. Che idea si è fatto in proposito? La partita di novembre ha già un vincitore: Donald Trump?
Nulla è ancora deciso, certo è, però, che il quadro è alquanto preoccupante. Penso soprattutto a due ultimissimi sviluppi: alla prestazione molto modesta del presidente uscente in occasione del dibattito televisivo con Trump, che ha preoccupato enormemente il partito Democratico, tant’è vero che è partita l’offensiva per chiedere a Biden di rinunciare alla candidatura. Un presidente uscente che sembra voler continuare la campagna elettorale, ma in una posizione di oggettiva debolezza.

E l’altro sviluppo che l’inquieta?
La decisione della Corte Suprema che ha riconosciuto l’immunità di Trump per lo meno per atti compiuti nella sua veste di presidente, atti con una valenza pubblica, e che ha rimesso ai giudici di merito la valutazione se per le incriminazioni per le quali sono avviati procedimenti giudiziari a carico di Trump, questa immunità possa o meno fatta valere. Il risultato pratico è che nessun processo potrà proseguire finché non si scioglie questo nodo e verosimilmente nessun processo arriverà a sentenza prima delle elezioni di novembre, il che favorisce ulteriormente la posizione di Trump. Il rischio di una rielezione di Trump è molto concreto, con tutto quello che ciò comporta, soprattutto sotto il profilo dell’imprevedibilità di questo ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Questa crisi di leadership negli Stati Uniti non è in qualche modo il segno di una crisi più generale dell’Occidente, dei suoi valori, dei suoi principi, delle sue politiche?
Non arrivo a questo punto di pessimismo sullo stato di salute delle democrazie occidentali. Resta il fatto che quella che avrebbe dovuto essere considerata come la democrazia più solida, più forte, più resiliente al mondo, cioè quella americana, oggi sta dimostrando dei limiti clamorosi. Il fatto che quel sistema non sia riuscito a produrre due candidati più credibili e autorevoli di Biden e di Trump è un segnale molto inquietante della debolezza di quella democrazia. Resto convinto che, al fondo, il nostro sistema complessivo, che viene coniugato in maniera diversa dai Paesi del gruppo occidentale, resta il migliore. Sarebbe però un errore continuare nella contrapposizione tra democrazie e autocrazie, ritenendo che questa contrapposizione possa aiutare a definire una governance globale più efficace e più effettiva. Noi dovremmo rimanere saldamente a difesa dei nostri valori, dei nostri principi, dei nostri sistemi ma non cercare di imporli ad altri, perché questo nel corso della storia si è rivelato molto controproducente.

4 Luglio 2024

Condividi l'articolo