Le elezioni in Francia
Intervista ad Arturo Scotto: “Macron ha sdoganato la destra, sinistra unica alternativa a Le Pen”
«C’è solo una domanda di ricette socialmente decifrabili. Non è tempo per messaggi ambivalenti. Il centrismo radicale di Macron non ha retto alla crisi del ceto medio»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Arturo Scotto, parlamentare e membro della Direzione nazionale del Partito democratico. “Se in Francia vincono i fascisti. A rischio il patto democratico che governa l’Europa”, titolava ieri l’Unità.
Il rischio c’è e l’Unità fa bene a rimarcarlo. Ma la partita non è chiusa. Non sta scritto da nessuna parte che a Matignon ci sarà un primo ministro fascista. Tuttavia, il colpo è stato forte, fortissimo. L’estrema destra ha dimostrato di avere un terzo degli elettori, un voto mai visto in queste dimensioni e con una tale affluenza al voto, la più alta da decenni. Dieci milioni di francesi che vogliono chiudere con la quinta Repubblica hanno fatto saltare la diga repubblicana contro i nostalgici del regime collaborazionista di Vichy. Ora bisogna capire se questo basterà, dopo gli appelli alla desistenza al secondo turno che sono venuti sia dai liberali che dalla sinistra. Un messaggio anche all’Italia come ha ricordato Elly Schlein, invitando tutte le opposizioni a mettere da parte i distinguo e a unirsi contro la destra del premierato e dell’autonomia differenziata che distrugge l’unità nazionale.
Per restare in Francia.
Non do per scontato nulla. Nemmeno l’ipotesi che Bardella possa essere il prossimo primo ministro. Può accadere, anche perché il solco tra sinistra e Macron si è allargato in questi due anni. Il Presidente della Repubblica appena incassato il secondo mandato aveva promesso che avrebbe ascoltato il dolore della Francia che sta in basso, che avrebbe rimesso al centro la questione sociale. Ha invece fatto esattamente l’opposto. Ha picchiato duro su insegnanti, operai, dipendenti pubblici promuovendo una riforma delle pensioni draconiana, ha ulteriormente flessibilizzato il mercato del lavoro, ha inaugurato una stagione di tagli alla spesa sociale, ha militarizzato le periferie, ha indossato persino l’elmetto proponendo di inviare le truppe a Kiev. Macron ha provato a incarnare i valori della destra repubblicana provando a schiacciare la sinistra sul massimalismo, alludendo per molto tempo a una equivalenza tra Rn e Nfp, ma così facendo non ha arginato l’estrema destra. Al contrario, l’ha galvanizzata e sdoganata mettendola nelle condizioni di candidarsi ad offrire una via d’uscita alla Francia delle aree interne – quella che con i gilet gialli era emersa prepotentemente – che l’hanno votata in massa. Oggi ricucire quella frattura con un’alchimia elettorale – il ritiro di chi è arrivato terzo nei ballottaggi – sarà un’impresa molto difficile. Ma è obbligatorio provarci.
La gauche, sia pure a denti stretti, ha ritrovato una sua unità, almeno elettorale.
Il Nuovo Fronte Popolare è stata una formula necessitata. La campagna elettorale delle europee aveva allargato di molto la frattura nella sinistra. Non è un mistero che tra Glucksmann e Melenchon erano volate parole grosse. Tuttavia, è scattato immediatamente il principio di realtà dopo l’improvviso scioglimento del Parlamento e il rischio di vittoria dei lepenisti. L’unità ha funzionato, la sinistra plurale torna in campo dopo anni con più di 9 milioni di voti e largamente come seconda forza del paese a soli quattrocentomila da Bardella, l’unica alternativa possibile in prospettiva all’estrema destra. Vorrei ricordare che dopo i cinque anni di presidenza socialista di Hollande e la conseguente affermazione dell’ipotesi centrista di Macron si parlava di scomparsa definitiva della sinistra politica in Francia. Non è così, emerge soltanto una domanda di ricette socialmente decifrabili e all’altezza del nostro tempo. Che non è un tempo di messaggi ambivalenti.
Sul piano dei contenuti, che sinistra è?
È una sinistra con un programma molto forte: innalzamento del salario minimo a 1600 euro mensili, progressività fiscale e reintroduzione di una tassa sui grandi patrimoni (quella eliminata da Macron, cosa che nemmeno la destra tradizionalmente gollista aveva osato fare), riforma del sistema televisivo in mano a oligopoli privati che sono passati disinvoltamente da Macron a le Pen, abbassamento dell’età pensionistica. Si sta reimpiantando nella società una sinistra politica nonostante anni di marginalizzazione e demonizzazione: con gli Insoumise bollati come estremisti e i socialisti trattati come ininfluenti. La Francia sta tornando invece a un bipolarismo sinistra-destra, ovviamente con caratteristiche diverse rispetto alla tradizione della Quinta Repubblica e soprattutto sul lato destro con novità inquietanti. Quello che è entrato in crisi è il centrismo radicale di Macron, che non ha retto di fronte alla crisi del ceto medio, all’allargamento della frattura tra centri urbani e Francia profonda e persino alle nuove sfide dell’integrazione dei cittadini di origine straniera di terza e quarta generazione. Ora il problema sta nel campo dei liberali. Se leggo alcuni quotidiani italiani sembra che Macron abbia vinto di nuovo. Non è così. Ha costruito un azzardo sulla pelle dei francesi, ha stressato all’infinito i suoi poteri costituzionali, ha sdoganato la tentazione – che fu il capo di accusa principale di Mitterand nei confronti del Generale De Gaulle quando forzò sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica – del “coup d’etat permanent”. Oggi Macron è isolato e senza sbocco. Siccome non può andare a destra dice ai suoi che il pericolo principale è la Le Pen. Va bene – io dico finalmente! – ma si poteva evitare questa danza irresponsabile sul ciglio del burrone. La verità è che l’infarto del sistema politico francese parla alla crisi della democrazia in Occidente. Ed anche all’Italia. Mai mettere troppo potere nelle mani di uno solo.
La domanda sorge spontanea: perché la sinistra non riesce a fare il salto definitivo e tornare a vincere da sola?
Perché fa fatica a saldare gli ultimi con i penultimi. Se guardiamo la cintura della banlieu parigina e di altre grandi città come Marsiglia o Lione i candidati della sinistra – in particolare gli Insoumise – vincono in molti casi al primo turno. L’Nfp recupera il voto nei quartieri difficili, a maggioranza spesso di tradizione araba, ma arranca nelle campagne e in un pezzo di lavoro operaio non specializzato e precario. Vince tra i “Mohammed” che non si sentono fino in fondo cittadini – anche se hanno il passaporto francese da quaranta anni-, perde tra i “Francois” che temono di essere scalzati sul piano sociale, economico e persino culturale. Nel paese più laico d’Europa torna a pesare molto la questione religiosa. E la questione religiosa si chiama rapporto con l’Islam, che viene considerato poco compatibile con i valori laici della Republique. Questa classe di perdenti della globalizzazione è indotta a coltivare la paura dell’immigrazione, su cui Le Pen costruisce la propria retorica della sostituzione etnica e ripropone la preferenza nazionale. C’è tuttavia un risveglio delle giovani generazioni dove la sinistra sfonda e rappresenta una nuova speranza. Lo fanno attorno al tema della pace, innanzitutto. Che in un pezzo di classi dirigenti neoliberali sembra ormai una parola pericolosa, una bestemmia pronunciata da acchiappanuvole. E invece è la questione delle questioni, che chiama in campo il ruolo e la prospettiva della Francia nel grande gioco geopolitico.
La destra, e non solo, accusa Melenchon di antisemitismo.
Melenchon antisemita? Ma qui stiamo parlando di uno che viene dal partito socialista. Ha fatto il ministro di Jospin, è cresciuto alla scuola di Mitterand. Ha indubbiamente i suoi limiti, innanzitutto caratteriali, ma non è un khmer rosso. Nel programma del Fronte popolare c’è una netta presa di distanza da Putin e dall’invasione dell’Ucraina e una linea sul Medio Oriente che dice: cessate il fuoco, liberare gli ostaggi e riconoscere lo Stato di Palestina. Quello che sostiene il Pd di Elly Schlein da mesi. Non mi sembra una posizione estremista. La verità è che la destra estrema, in Italia come in Francia, si sta saldando con l’estrema destra israeliana. Quella che ha sabotato la soluzione dei due popoli due Stati in questi ultimi venti anni. Chiunque provi a dire che è sbagliata questa linea si becca l’ignominiosa accusa di antisemitismo. È qualcosa di insopportabile che non aiuta la causa della pace. La Meloni come Le Pen – ma potremmo aggiungere Trump, Milei e Bolsonaro – È come se avessero negoziato un “condono” sul loro passato, ivi compreso le connivenze esplicite con il fascismo e il sostegno alle leggi razziali, sposando la linea di Benjamin Netanyahu. Ma Israele non è il Likud, così come la Palestina non è Hamas. Di che stiamo parlando allora?
Parliamo del (fu) Belpaese.
Sono preoccupato per l’Italia. A me colpisce la foga con cui Meloni attacca Fanpage e il principio del giornalismo undercover. Quando afferma che nessun partito ha subito il trattamento di giornalisti sotto copertura per settanta anni, dice una bugia. Fanpage lo ha fatto innanzitutto con il Pd, durante alcune primarie che si sono celebrate in passato sul territorio campano. Nessuno si appellò al Presidente Mattarella. Nessuno minacciò ritorsioni. E poi l’attacco al giornalismo libero e indipendente serve ad aggirare le risposte su cosa emerge dalla classe dirigente giovanile di Fratelli d’Italia. Che Giorgia Meloni ha cresciuto, finanziato e protetto in questi anni. Dire che sono poche mele marce in un cesto sano è falso. Sono il suo album di famiglia. Il problema per lei è il metodo con cui sono stati “beccati”, non che abbiano fatto o dichiarato cose terribili. Il vittimismo resta l’ingrediente principale di chi oggi dirige il paese. Ma dobbiamo smetterla di pensare che Meloni sia Alice nel Paese delle Meraviglie. FdI è in parte quella roba là. Sono nati per tornare indietro all’impianto politico e ideologico dell’Msi, perché la svolta di Fiuggi di Fini loro l’hanno subita, non sostenuta.
Cosa fare per contrastare questa deriva revanscista?
Un mese fa ho depositato una interrogazione parlamentare su Latina partendo da una denuncia di Marco Omizzolo e Sandro Ruotolo che avevano costruito un’inchiesta dove emergeva chiaramente il nesso tra neofascismo e forme di schiavismo nelle campagne.
Lo schiavismo che sta dietro la tragica morte di Satnam Singh.
I caporali obbligavano la manodopera indiana a fare il saluto romano davanti al busto del duce prima di andare a lavorare. Qualcuno ha ancora insomma la testa allo schiavismo presente nel tempo delle bonifiche dell’agropontino. Anche Satnam Singh e stato ucciso da questo sistema. La vita umana non conta nulla, se sei ferito sul lavoro sono fatti tuoi. Ma non possiamo pensare che sia un semplice fatto di cronaca nera. il caporalato è parte di un pezzo di filiera agricola che compete sulla compressione dei costi e sull’azzeramento delle tutele. È una scelta sistemica, non episodica. Si tratta di stabilire se abbiamo in testa questa idea di organizzazione del lavoro e della produzione. Se sì, allora significa che non escludiamo dal nostro orizzonte la servitù della gleba. Se non è così, dobbiamo dire chiaramente che serve un cambiamento profondo: chiudere la stagione della frammentazione e precarizzazione del lavoro, superare leggi come la Bossi-Fini che spingono verso la clandestinità e l’irregolarità, fermare la strada dei subappalti a cascata che aiuta il dumping salariale e la penetrazione mafiosa, introdurre anche in agricoltura indici di congruità che vincolino l’erogazione dei fondi europei alla qualità del lavoro, dei contratti, del prodotto. Si deve passare di qui se vogliamo tornare ad aggredire una questione sociale che diventa benzina per il populismo della destra e che condanna a morte i dannati della terra.