Il ricordo del leader
Intervista a Walter Massa: “Tom Benetollo, un leader senza esserlo ma parte di una famiglia”
«Non è stato difficile riposizionarci con credibilità dentro quel solco pacifista, internazionalista per visione, intransigente ma mai ottuso. Sarà sempre il presidente dell’Arci, era un leader senza essere un leader, ci siamo sentiti collettivo, squadra, famiglia»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci. Vent’anni fa, moriva Tom Benetollo. Un ricordo personale, anzitutto.
Non è facile individuare un ricordo capace di raccontare oggi Tom, calandolo nella realtà che stiamo vivendo. Non è una frase di circostanza, nonostante io per primo avverta quanto il raccontare o scrivere di questi vent’anni, di questa scomparsa improvvisa così grande, rischi di far emergere un tratto retorico capace di ossidare tutto, compreso il senso genuino della parola mancanza.
Ma non voglio sfuggire alla domanda e dunque, oltre alle risate e alle bevute notturne al Meeting Antirazzista di Cecina, oltre alle illuminanti e affascinanti relazioni capaci di far individuare a ciascuno di noi un orizzonte oltre il proprio naso, oltre all’incredibile forza di questo omone alto, grande e grosso ma mai minaccioso, sempre con la valigia in mano, il ricordo più nitido che ho di lui è la sua capacità di rassicurare, di smorzare la tensione, di intravedere sempre una via d’uscita, anche nelle situazioni più difficili e delicate. Come quella volta a Genova, il giorno dopo la drammatica giornata del 21 luglio 2001, in una segreteria dell’Arci genovese, con lui e Raffaella Bolini, a fare il punto dopo le botte e le violenze delle forze dell’ordine e il massacro, fisico e politico, di quelle oltre 300 mila persone arrivate al G8 per urlare “Un altro mondo è possibile”. Ecco, in quella mattina del 22 luglio, una domenica, l’indomani mattina del massacro della Diaz, presso la sede del circolo Arci Città Futura in Corso Torino, teatro di violenze assurde, con mezzi dei carabinieri dati alle fiamme ed altri intenti ad investire manifestanti, inseguendoli persino sui marciapiedi, in questo clima che potete solo immaginare, squilla il telefonino di Tom. Lui risponde subito, tranquillo nonostante la stanchezza, ed ho ancora l’immagine del suo viso impresso nella mia mente. Poi l’espressione cambia, pare preoccuparsi, e chiude la telefonata con un “la ringrazio vice brigadiere” che ci fa subito girare tutte e tutti verso di lui. Qualcuno aveva abbandonato il nostro furgone preso a noleggio che, nella giornata di venerdì, tra le altre cose, avevamo utilizzato per requisire tutti i possibili strumenti di offesa che di volta in volta trovavamo in Piazza Dante, la nostra piazza tematica di quella drammatica giornata. Quel furgone era parcheggiato davanti ad una caserma dei Carabinieri, che erano stati contattati dalla ditta di autonoleggio perché il mezzo non era rientrato nei tempi previsti e, ovviamente, noi non avevamo avvisato. Bisognava andare a prenderlo e riportarlo a Roma. Ma c’era un ma, visto il clima di quei giorni. Tutti abbiamo pensato ad una trappola, o a qualcosa del genere, ma dovevamo decidere chi di noi sarebbe andato a recuperare il mezzo, con tanto di rischio. Tom, passata la faccia preoccupata, propone una conta, tipo quelle dei bambini alle elementari, con lo sguardo sornione e divertito, che in quel contesto ci spiazzò, ma ci rilassò e ci fece anche un po’ divertire. Questo era Tom. Per la cronaca la conta fece uscire Gabriele a cui voglio mandare un abbraccio gigante.
Le battaglie contro gli euromissili, la costruzione di un pacifismo consapevole e fuori dalle logiche da Guerra fredda. Le “ragioni di Tom”, Ancora valide e attuali, vent’anni dopo?
Dicevo prima che corriamo un rischio retorico, soprattutto con domande di questo tipo ma, tranquillizzo, non è assolutamente una critica. Se c’è una cosa che abbiamo condiviso con Eva e Gabriele, insieme a tutta l’Arci, per questo ventennale, è quella di sfuggire in ogni modo ai ricordi che sanno di polvere e che non alzano lo sguardo verso il domani, come lui ci spronava a fare tutte le volte. L’abbiamo ben stampata in mente, noi dell’Arci, una delle sue frasi memorabili, che abbiamo usato nuovamente il 25 maggio Napoli con La Via Maestra, in occasione della più grande manifestazione politica della recentissima campagna elettorale per le Europee: “Arrendersi al presente è il modo peggiore per costruire il futuro”. Ed io non voglio certamente peccare di retorica, ma vorrei poter innanzitutto condividere con voi il senso della mancanza che in tante e tanti abbiamo vissuto da quel giugno di ormai vent’anni fa. Una mancanza che spesso si è mascherata dietro quelle domande senza risposte: “che avrebbe detto Tom? Che avrebbe fatto Tom?”. Domande senza risposte certe, che alla fine sono sempre servite a riportare i nostri pensieri a quell’Arci a cavallo della fine degli anni ‘90 e i primi 2000 che abbiamo vissuto e di cui, trasversalmente, ci siamo sentiti tutte e tutti protagonisti e responsabili. Certo quelle domande sono state anche lo specchio di paure, solitudine, difficoltà, ma il richiamo di una stagione grande che doveva ritornare per farci sentire “dalla parte giusta della vita” è sempre stato più forte. E così oggi ci sentiamo nuovamente in quel solco che lui e tutto il gruppo dirigente di allora tracciò, con una forza e una lungimiranza incredibile guardandola oggi. Un po’ anche perché il nostro pianeta è visibilmente peggiorato come gli umani che lo abitano. Dunque, non è stato difficile riposizionarci con credibilità dentro quel solco pacifista, internazionalista per visione, intransigente ma mai ottuso, che continua a battersi per la supremazia della diplomazia e del diritto internazionale, che difende la Costituzione sempre, articolo 11 compreso. Che non ha paura delle etichette mainstream, affibbiate per violentare le storie, la memoria e i valori di individui e collettivi, solo perché chiama con il proprio nome lo sterminio di un popolo, in barba a qualsiasi risoluzione internazionale. Così come rifiuta, dai tempi della legge Turco Napolitano e poi della Bossi Fini, questa idea che nel mondo esistano uomini e donne diversi, alcuni con più diritti e altri costretti a soccombere per garantire ai primi privilegi e prosperità. Le notizie dell’ennesima strage in mare di queste ore, con 65 dispersi di cui, pare, 25 bambini, non meritano più della dodicesima pagina sui giornali. C’è però una bella storia, anche in queste ore drammatiche, che racconta bene e concretamente perché quella faglia in cui stiamo da oltre vent’anni sia a tutti gli effetti la parte buona della vita, come ci avrebbe ricordato Tom: proprio in questo 20 giugno, mentre in tantissimi ricorderemo presso la nostra sede, con una festa come l’Arci sa fare, il nostro – per sempre – presidente nazionale, diversi di noi saranno a Fiumicino, ad accogliere un nuovo aereo proveniente dal Pakistan con a bordo famiglie afghane in fuga dopo l’estate del 2021. I famosi corridoi umanitari che continuiamo ad accogliere nel silenzio più totale, quando tutte e tutti hanno completamente dimenticato le immagini drammatiche delle persone aggrappate alle ruote degli aerei in fuga dai talebani. Quindi quelle ragioni non solo sono attuali, ma continuano ad essere la luce di quel lampadiere in questo buio quasi totale dettato dai tempi che corrono.
Tom è stato presidente dell’Arci. Quanto ha contribuito a innovare la più importante e storica associazione della sinistra?
Tom sarà sempre il presidente dell’Arci e vorrei affermarlo con una certa perentorietà. Non solo per affetto e riconoscenza, che pure c’è ed è tantissima, ma perché l’Arci che conosciamo oggi è gran parte merito delle sue intuizioni e del lavoro del gruppo dirigente diffuso che lo ha accompagnato in quegli anni, che lo ha sostenuto, che ne ha praticato uno stile unico e credibile fondato sulla cura, l’incontro e la prossimità, la vicinanza anche fisica alle vertenze giuste, in ogni angolo del nostro Paese, con l’azione dei suoi circoli e dei comitati, e nel mondo, mettendoci la faccia praticando solidarietà. E poi ancora la lotta serrata alla solitudine delle persone, dei collettivi, e per contro una ritrosia atavica all’autoreferenzialità come tratto distintivo riconosciuto. Tom era un leader senza essere un leader e così ha plasmato una buona parte del suo gruppo dirigente. Ci siamo sentiti collettivo, squadra, famiglia, in modo trasversale insieme a Tom e infatti spesso, negli anni passati, guardando al nostro interno, mi sono spesso domandato quante incazzature nel vedere la sua Arci in preda a spasmi acuti di autoreferenzialità, in tutta una stagione che invece avrebbe avuto bisogno di una grande associazione popolare capace di incidere nella vita delle persone. Una stagione tragica, ma che guardandola adesso con un po’ più di distacco, mi appare anche un po’ comica e forse anche salutare, con tutta la prudenza del caso. E si sa quanto il dramma ogni tanto faccia pure ridere. Oggi noi siamo ancora questo, con tutti i limiti del caso, e la nostra più grande fortuna è aver riscoperto, anche nel suo nome, quella casa comune, fatta da tutte e tutti, ciascuno con le proprie differenze. In questi vent’anni ho letto e riletto moltissimo i suoi scritti, dalle relazioni congressuali (bellissima quella di Vico Equense nel 2002 che si concludeva con una citazione di Al Ghazali, filosofo medioevale persiano: «Devi evitare di frequentare principi e sultani, perché dalla loro compagnia e frequentazione deriva gran danno. Ma se sei obbligato a frequentarli, evita complimenti e adulazioni, poiché Iddio l’Altissimo si adira quando vengono lodati malvagi ed oppressori»), agli interventi pubblici, così come i puntuali editoriali associativi, che scandivano le nostre giornate e le riempivano di obiettivi e di visioni. L’ho fatto e lo continuo a fare per continuare ad imparare da un compagno con cui ho condiviso non solo la militanza in Arci, ma anche quella di partito, in un partito di sinistra in forte trasformazione in cui, nonostante fossero evidentemente di più le cose che non ci convincevano di quella linea politica, noi provavamo a non buttare via tutto quello che quel partito era stato prima della caduta del Muro. L’ho fatto, in questi anni, anche per non dimenticare quell’Arci che Tom aveva voluto così radicata nel territorio, ma capace di essere soggetto nazionale – e in certi momenti internazionale – di riferimento per il coraggio e l’autonomia nel prendere decisioni importanti come fu ad esempio Genova nel 2001.
Tom aveva a cuore una Europa solidale, inclusiva, protagonista di un dialogo tra pari con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo. C’è ancora spazio, anche alla luce del voto dell’8-9 giugno, per sognare l’”Europa di Tom”’?
Io penso che lo spazio vada trovato ad ogni costo, con quell’ostinazione gramsciana racchiusa in quella illuminante massima: “Mi sono convinto che anche quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio”. Va ricercata perché il voto europeo ci consegna indubbiamente un Parlamento più conservatore, spostato a destra. E, vorrei aggiungere, con la forte preoccupazione legata agli equilibri interni di Germania, Francia e Italia, che metto in quest’ordine per indice di preoccupazione. L’affermazione dei neonazisti di AFD è un segnale inquietante, anche per le recentissime prese di posizione e iniziative che ne hanno provocato l’espulsione dal gruppo dell’europarlamento Identità e Democrazia, dove stava in bella compagnia con Salvini e Le Pen. Questi sono quelli delle SS buone tanto per capirci. Anche in Francia non se la passano bene e la pesantissima sconfitta di Macron (come in parte quella di Scholz in Germania) credo possa essere ascrivibile anche alle recentissime prese di posizione belliciste relativamente al conflitto russo ucraino. L’interventismo esasperato di Macron nell’ultima fase – probabilmente pensato per recuperare voti a destra – ha condannato il presidente francese alla più bruciante sconfitta che si potesse immaginare, proprio a favore dell’ultradestra rappresentata da Le Pen. In Italia, a mio avviso, siamo in un contesto leggermente diverso. Nonostante gli strombazzamenti mainstream sulla vittoria personale del presidente del Consiglio e l’affermazione del suo partito – e questo la dice lunga sulla qualità dei media nel nostro Paese a cominciare dal fu servizio pubblico – il dato non è così rose e fiori. Aumenta l’astensionismo in modo evidentissimo, e già questa non può essere considerata una buona notizia per chi governa perché, nella migliore delle ipotesi, non ha sfondato. In secondo luogo, FDI perde, in poco più di un anno e mezzo, circa 600/700 mila voti, e anche questo non può essere motivo di giubilo. Terzo, sempre FDI, prende circa 6 milioni di voti che, ancora una volta, segnano come la maggioranza parlamentare non significhi maggioranza culturale come molti vogliono farci credere. Quarto, crescono dal punto di vista dei dati assoluti, due partiti a sinistra, AVS e PD, recuperando insieme oltre 700 mila voti, e anche la neoformazione a impronta pacifista Pace e Dignità ottiene comunque un buon risultato. Segnali, come direbbe qualcuno, che noi abbiamo il dovere di cogliere, allontanandoci da quei concetti asfissianti secondo cui non c’è vita oltre la destra nostrana. Non lo dicono i numeri, dunque non lo dice la realtà e, aggiungo, sono mesi che lo vediamo e percepiamo girando il Paese. E mi pare un gran bel salto da quel drammatico settembre 2022. Tornando a Tom, va bene questa Europa? No, lo dico seccamente. L’Europa che abbiamo conosciuto negli ultimi 15 anni, a parte la parentesi della pandemia, è stata quanto di più distante dai bisogni che crescevano e diventavano calvari per milioni e milioni di cittadine e cittadine. Con una incapacità cronica di autorevolezza, a causa delle fobie nazionaliste che da decenni imperversano a casa nostra. Superare l’austerità solo per produrre più armi, dichiarando lo stato di economia di guerra, cedendo completamente una politica estera comune alla Nato, è quanto di più sciagurato si potesse pensare. Correndo il rischio di essere strumentalizzati: l’apertura ad est continua ha indubbiamente rappresentato una sponda democratica per moltissimi, ma ha anche messo in evidenza come i valori fondanti dell’Europa, scritti ma mai agiti, siano stati travolti senza troppa esitazione e con estrema facilità. Stupirsi continuamente delle chiusure identitarie dei paesi del patto di Visegrad, o stupirsi di come vengono trattati i detenuti in Ungheria, salvo poi chiamare gli stessi per questa o quell’altra iniziativa o azione comunitaria, è parte di quella ipocrisia e di quella schizofrenia che allontana anni luce da una politica fondata prima di tutto su valori. Per questo noi dobbiamo continuare a lottare per una nuova Europa, quella fondata a Ventotene, che, forte delle ferite profonde della Seconda guerra mondiale e salda nei suoi principi, ha saputo garantire pace fino agli inizi degli anni Novanta. Poi è iniziato il vuoto, e ho il ricordo ancora nitido proprio di Tom, sotto le bombe della Nato in Serbia, con un mirino disegnato sul petto, così come ho il ricordo, insieme a Tom, di donne straordinarie come Raffaella Bolini, Alessandra Mecozzi, Chiara Ingrao, Luisa Morgantini, Luciana Castellina e moltissime altre, tenersi per mano in una catena umana a Gerusalemme, insieme ad israeliani e palestinesi, sotto le botte e gli idranti della polizia, per chiedere un nuovo tempo di pace in Medio Oriente. Oggi come allora noi continuiamo a batterci per quell’Europa li, non per questa.
Tom suggeriva a tutti il ruolo del lampadiere: «In questa notte oscura, qualcuno di noi, nel suo piccolo è come quei “lampadieri” che, camminando innanzi, tengono la pertica rivolta all’indietro, appoggiata alla spalla, con il lume in cima. Così il “lampadiere” vede poco davanti a sé ma consente ai viaggiatori di camminare più sicuri. Qualcuno ci prova. Non per eroismo, non per narcisismo ma per sentirsi dalla parte buona della vita. Per quello che si è».
Tom è stato il lampadiere per antonomasia. Ha inventato quella figura trasportata nel nostro mondo, dandole una funzione più compiuta. Lo è stato con il suo modo schivo e dimesso, per certi versi, nelle occasioni pubbliche. Ma sapeva farsi valere con intelligenza e capacità uniche. A pensarci meglio è forse un rammarico sapere che diversi se ne sono accorti troppo tardi. Vale per lui e vale per tanti e tanti altri, diversissimi da lui e tra loro. Penso certamente a Enrico Berlinguer ma anche a Dino Frisullo. E ricordo come se fosse ieri, proprio alcuni mesi prima di lasciarci improvvisamente, a Bologna, in un Consiglio Nazionale, quando ci annunciò la su intenzione a non ricandidarsi alla presidenza nazionale dell’Arci, lasciandoci tutte e tutti estremamente preoccupati per questo gravoso lascito. Di cui moltissimi non si capacitavano. Stava probabilmente guardando oltre ai tempi che sarebbero arrivati e che lui stava già annusando, vedendo le difficoltà della politica, dei partiti, in quella stagione a cavallo tra i ricordi di quello che fummo e i progetti di terze e quarte vie. Guardandola oggi quella fu una vera e propria anticipazione – che altri chiamerebbero presagio – perché è indubbio che a quella preoccupazione mesi dopo seguì il dolore profondo per la sua scomparsa e l’angoscia per il nostro futuro, facendo pian piano emergere anche un po’ di umano egoismo come sempre accade. Spesso mi sono domandato quante risate si sarebbe fatto Tom in questi vent’anni, di fronte a questa santificazione laica che giustamente gli stiamo tributando anche oggi. Continuo spesso a leggere i suoi scritti perché, in tempi e modi diversi, e con le necessarie differenze, quell’idea di Arci che lui ha incarnato e voluto, motore di emancipazione, di sana ribellione, di autonomia di pensiero e di giudizio e di inclusione, possa continuare ad essere il nostro progetto politico, utile a noi e a chi ci guarda con sana curiosità. Di una cosa, infatti, siamo tutte e tutti certi: c’è bisogno di più Arci di prima, che forse può voler anche significare che c’è più bisogno di Sinistra di prima. È c’è un modo solo per provare a farlo: far sentire tutte e tutti parte di questa sfida, responsabili di questa missione e uniti nelle differenze che ci contraddistinguono.