Le riforme della premier
Proteggere la Costituzione dalla democrazia della maggioranza
L’autorità e l’autorevolezza delle leggi non coincidono con la forza della maggioranza, né sono riducibili alla loro coercitività. Si tratta di un principio non scritto che è alla base della stessa cultura giuridica precostituzionale. Ci sono regole e princìpi pre-costituiti, non patteggiabili
Editoriali - di Massimo Donini
L’autorità e l’autorevolezza delle leggi non coincidono con la forza della maggioranza, né sono riducibili alla loro coercitività. Si tratta di un principio non scritto che è alla base della stessa cultura giuridica precostituzionale, non solo giusnaturalistica, ma che a maggior ragione è incardinato in un ordinamento a struttura costituzionale. Le norme costituzionali, a loro volta, sono l’esempio più luminoso di questo principio, che si oppone al vecchio e mai superato giuspositivismo secondo il quale, invece, auctoritas, non veritas, facit legem. Il populismo segue percorsi analoghi di legittimazione, quando il suo richiamo al consenso popolare aggira o svaluta ogni discussione con esperti o interlocutori i quali, in quanto non sono eletti, non “contano nulla” in termini di democrazia maggioritaria. Eppure, se le leggi ingiuste o divisive vanno comunque obbedite, tuttavia si possono disobbedire, eludere o contrastare con maggior convinzione.
Anche il sistema elettorale maggioritario, quale mera tecnica di organizzazione dei voti per la formazione governativa e la maggioranza parlamentare, può funzionare con la medesima logica: un cinismo pragmatico e autoritario dà per scontato che chi ha la forza dei numeri può fare ciò che vuole, anche riscrivere le regole del gioco. Così ragionando, dopo ogni affermazione elettorale, una nuova coalizione potrebbe abolire e riformare tutto, nel segno della relatività politico-maggioritaria di una lex senza stabilità di ius. È la legge della maggioranza, ci spiegherà l’interprete dell’esistente, il cantore del reale-razionale.
Invece, va detto con chiarezza che non è opportuno, anche se tecnicamente possibile, che riforme costituzionali di fondo (non tutte lo sono: v. infra) siano approvate con semplice maggioranza. Alcune alterazioni degli assetti originari della Costituzione del 1948 restituiscono oggi una disciplina contraddittoria. Addirittura, sono vietate dopo Tangentopoli le leggi di amnistia con maggioranza ordinaria (art. 79 Cost.): mentre una maggioranza semplice può abolire un reato, per il passato e per il futuro, cioè per sempre, al fine di eliminare solo temporaneamente (per il passato) un reato in forma clemenziale (amnistia o indulto), sono necessari i due terzi dei componenti di ciascuna Camera. A sua volta, una maggioranza assoluta potrebbe modificare quello stesso art. 79 Cost. che prevede la maggioranza qualificata. Questo modello maggioritario per la revisione costituzionale è costituzionalmente conforme (art. 138 Cost.), ma la sua messa a “sistema” potrebbe trasformare il senso stesso della democrazia costituzionale.
Ognuno comprende che l’autorevolezza della Costituzione, così interpolata, ne esce compromessa. Perché le leggi fondamentali non sono collage o sommatorie di voti parlamentari: se lo fossero, nessuno le interiorizzerebbe più, considerandole mere contingenze di una politica regolamentante. Sarebbero come tante (non tutte le) leggi ordinarie, che pure dovrebbero esprimere una autorevolezza intrinseca, se fossero espressione di valori e significati nei quali la collettività si riconosce, e che non la lacerano tra divisioni politiche. Si rifletta ancora sull’esempio dell’art. 79 Cost. già riportato: incriminare le condotte è assai più grave e importante che approvare provvedimenti di clemenza. Si potrebbe allora immaginare più comprensibilmente una maggioranza qualificata per introdurre i reati, invece che per le leggi di amnistia e indulto, sottraendo ai governi uno strumento formidabile di populismo penale, al quale ovviamente non rinunceranno mai.
Le leggi ordinarie rimangono esposte al vento cangiante delle maggioranze, alle quali deve invece essere sottratta ogni modifica della Carta fondamentale, aliena per sua stessa natura dalla mera contingenza politica.
Ma oggi è proprio questa la cultura di governo, che considera la Costituzione una legge quasi ordinaria (la maggioranza dei componenti di ciascuna Camera deve però essere assoluta nella seconda votazione: art. 138, co. 1, Cost.), e vede come un mero intralcio o inconveniente la procedura di conferma referendaria (art. 138, co. 3, Cost.). Tutto intorno i quotidiani inebetiti rispecchiano questa logica nel raccontarla ai lettori, senza trasmettere lo spirito forte del precetto costituzionale vigente, la sua portata di garanzia non transeunte. La stessa legge parlamentare, poi, è degradata a conferma di provvedimenti governativi, sanciti sempre più nella forma del decreto-legge. Sono spesso leggi prive di studi preparatori, un penale quotidiano di serie B (decreti antirave, Cutro, Caivano, “Giustizia”, antisommossa, ecc.), mentre si allontanano nel tempo riforme importanti, ma incapaci di intercettare l’elettorato. Nonostante i flebili richiami del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale sull’intensificarsi recente dell’abuso del decreto-legge oltre ogni confine costituzionale delle ragioni eccezionali di necessità e urgenza (art. 77 Cost.), si sta consumando in effetti una ”maggioritarizzazione della democrazia”.
È un paradigma della democrazia costituzionale che ci sono regole e princìpi pre-costituiti rispetto alle maggioranze, e non patteggiabili. Non solo i princìpi fondamentali si inquadrano in questo programma, tutte le norme costituzionali esprimono tale statuto, e sono come tali sottratte a modifiche della maggioranza ordinaria, sebbene non tutte appaiano egualmente identitarie per la democrazia. Il tema della separazione delle carriere non implica, a differenza del premierato, una riforma di regole fondamentali dell’ordinamento, ma una revisione della disciplina costituzionale del C.s.m. e dell’ordinamento giudiziario; realizza soprattutto la conferma irreversibile del valore della terzietà del giudice e di una non più “unitaria” cultura della giurisdizione dei magistrati, con la piena riaffermazione del processo penale come processo di parti. Regola, quest’ultima, già iscritta nell’art. 111 Cost.
È assai più preoccupante e regressivo allora il programma inespresso, che non è implicito nella separazione, ma nella gestione “ordinaria” della nomina e della selezione dei giudici costituzionali, e della formazione permanente di quelli ordinari: l’obiettivo di promuovere uno stile burocratico di fare giurisprudenza, applicando la legge e le massime delle Sezioni Unite in modo semiautomatico, evitando ogni controllo critico di tipo costituzionale, riducendo gli spazi di interpretazione conforme a Costituzione o al diritto Ue e Cedu, e promuovendo così un magistrato avalutativo. Chi scrive è stato per dieci anni in magistratura, rivestendo sempre funzioni giudicanti, prima di dedicarsi a ricerca e insegnamento, e poi all’avvocatura. Tra prima e subito dopo Tangentopoli. Tra vecchio e nuovo codice di rito. Il p.m. era già allora una figura altra dal giudice: mai pensato di concedergli trattamenti processuali di vantaggio ai danni della difesa, mai coltivato il pregiudizio di una cultura della giurisdizione unitaria con lui. Era una parte con un onere dimostrativo: “doveva portare le prove”. E anche di fronte al G.i.p., l’accusa doveva aspettarsi un vaglio senza sconti delle misure cautelari, senza favoritismi procedimentali legati alla “colleganza”.
Quelli erano anni diversi per altri aspetti: l’idea di doversi iscrivere a una corrente per fare carriera era aberrante. C.s.m. e Camere penali non esprimevano politiche di riforma contrapponendo magistrati e difensori. La preparazione dei colleghi pareva adeguata. Finché non è accaduto di conoscerne molti di più, osservandoli dal di fuori, dalla posizione di avvocato. Alcune delusioni profonde hanno accompagnato questa esperienza, di fronte a supponenti o superficiali affermazioni in diritto e a pregiudizi colpevolisti in linea di fatto; o di fronte a comportamenti arroganti e autoritari, accompagnati a passioni punitive. Oltre questo disincanto, abbiamo preso atto che la politicizzazione di alcune Procure nella gestione di processi importanti ha trasformato la Costituzione materiale. Oggi è questa che va cambiata, insieme al contenimento dell’ossessione carrierista dei magistrati in corrente, che unisce solo loro, giudici e p.m., in una diversa e anomala “cultura”. La materia più lacerante sullo sfondo resta comunque il controllo della magistratura sulla (il)legalità (delle condotte di politici e amministratori) e la subordinazione della stessa magistratura alla legalità (ma non alla politica dei partiti o dei governi). È qui che emergono tendenze contrastanti che affiancano la riforma delle carriere alla diversa questione delle riforme della democrazia, al tema dell’ingovernabilità che il controllo giudiziario ha sicuramente aggravato.
È attorno a questo nodo gordiano permanente che si innesta e si comprende anche il tema del premierato forte. Id est: l’abbandono definitivo di una rappresentatività proporzionale veramente “democratica”, magari solo corretta, e di cui nessuno parla più, verso la democrazia diretta semplificata in logiche personalistiche. Una ricetta ideale per un elettorato che non vota se non al 50-60% degli aventi diritto, perché il voto individuale, che non esprime neppure preferenze, non conta davvero quasi nulla. Il gregge, allora, cerca almeno il capo mandriano. Ed è proprio di fronte al tema più divisivo, al rapporto tra giustizia e politica, che va ribadita l’esistenza di due livelli della Consulta e delle regole costituzionali fondamentali che si sottraggono alla democrazia maggioritaria, e che in quanto tali vanno tutelati. Ci sono certo regole, anche costituzionali, meno fondamentali, rispetto alle quali mutamenti di disciplina sono attratti in logiche più relativistiche di valori o di opzioni, mutabili nel tempo, più esposti a logiche maggioritarie. La discrezionalità dell’azione penale e la separazione delle carriere appartengono a questo secondo livello, che coinvolge una Costituzione materiale e un ordinamento oggi certamente diversi dal secondo Dopoguerra.
Aggiornare queste regole sembra diventato imprescindibile anche in una situazione politica frammentata. Invece, nei due livelli di giurisdizione, assegnati alla Consulta e alla magistratura ordinaria, la diversità del rango delle garanzie e dei diritti non comporta differenti aperture alle logiche del principio maggioritario. Il non essere eletti è un punto di forza assoluto di tutti i magistrati, non di debolezza. Così come il sottrarsi sempre al consenso dei partiti. La visione populista e maggioritaria di leggi e di giustizia è del tutto estranea al diritto costituzionale vigente e alla indipendenza della giurisdizione di qualsiasi rango. Se è vero, infatti, che le leggi le fa la politica, non appena promulgate esse entrano nel recinto del diritto. Anche lo Stato è soggetto al diritto: il giudice sta dalla parte del ius, non dei poteri costituiti. Si recupera così la sacralità civile della funzione giudiziaria nei suoi due livelli, costituzionale e ordinario. Per queste ragioni, in un ordinamento democratico, il progetto di assicurare la subordinazione dei magistrati alla legge, garantendo la terzietà del giudice, deve restare un punto di forza, che tale non sarebbe se celasse la volontà di un regolamento di conti.