Corpo a corpo sul premierato
Schlein sfida Meloni sul premierato: “C’è in gioco la democrazia”
Meloni si mostra dialogante perché teme di fare la fine di Renzi nel caso la riforma venisse affossata. Schlein invece vuol farne un referendum anti-destra
Politica - di David Romoli
Nello scontro a distanza sul premierato di due giorni fa tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein le due leader hanno adottato strategie comunicative opposte. Quella della segretaria del Pd è stata una (metaforica) chiamata alle armi: “Vi chiedo di bloccare le riforme con le voci e con i corpi”.
La premier, con accenti opposti a quelli dei comizi, ha fatto la parte di chi vorrebbe solo il dialogo: “Siamo entrati in punta di piedi per questo”. È propaganda in entrambi i casi, certo, ma che indica alcune realtà sostanziali.
Giorgia Meloni abbassa i toni, insiste sul dialogo, evita di stroncare con ghigliottine parlamentari l’ostruzionismo dell’opposizione perché teme di perdere il referendum e punta quindi sull’immagine di chi vorrebbe conciliare ma non può per carenza di interlocutori.
Nel convegno sul premierato di due giorni fa ha intonato un vero e proprio duetto con Luciano Violante, che critica la riforma per come è stata scritta ma afferma di condividerne l’obiettivo di fondo e si sottrae al muro contro muro.
Elly Schlein invita alla resistenza strenua, anche a costo di una infelice esagerazione come il passaggio sui “corpi” perché ritiene di poter vincere il referendum ma per farcela ha bisogno di trasformarlo in una guerra di religione che non permette alcun dialogo: democrazia contro dittatura.
La leader del Pd, ma in realtà tutta l’opposizione, finiscono così per mettere sul tavolo l’intera posta. Il referendum diventa un’ordalia che coinvolge tutto: il premier e la leader dell’opposizione ma anche il modello di democrazia dell’Italia nei prossimi decenni.
L’approccio del Pd è quindi radicalmente opposto a quello di Violante. Lo scontro tocca direttamente i fondamentali, le radici, e dunque non c’è possibilità di confronto alcuno. La partita, per il fronte antiriforma, non è affatto persa in partenza.
È possibile che le cose vadano davvero come lo stato maggiore del Pd ritiene probabile, cioè con una specie di ripetizione precisa del referendum che travolse Matteo Renzi. Ma quello schema di gioco resta azzardato e molto discutibile lo stesso. Quando ci si gioca tutto si può vincere ma se non va così si perde tutto ed è un’eventualità del tutto possibile anche questa.
Ma soprattutto adottando questo approccio l’opposizione si priva in partenza di ogni possibilità di migliorare anche radicalmente la riforma, che invece, ove dovesse essere approvata dal popolo votante, di miglioramenti sostanziali avrebbe bisogno assoluto.
Non per il bene di chi la propone ma per quello dell’intero Paese. L’emendamento presentato dal governo sul nodo della clausola anti-ribaltone spazza ogni illusione autorizzata sin qui dall’ambiguità del testo originale. Nel sistema ideato dal governo il potere di sciogliere le Camere sarà affidato al premier direttamente eletto.
Trattandosi del potere fondamentale del Quirinale, metterlo nelle mani del premier altera radicalmente l’equilibrio istituzionale. La cosa, data la portata della trasformazione sarebbe accettabile se il Parlamento avesse a propria volta un ruolo centrale. Non è così e proprio su questo tasto ha martellato Violante, parlando di passaggio a “una Repubblica semiparlamentare”.
La premier ha replicato addossando la responsabilità di aver svuotato il Parlamento del suo ruolo all’uso smodato della decretazione d’urgenza e si è detta disponibile ad affrontare il problema oltre che a sostenere il ritorno delle preferenze. Le ragioni per le quali Meloni apre questo spiraglio sono secondarie rispetto alla portata del problema.
L’opposizione potrebbe cogliere la necessità di dialogo della controparte per mettere in campo ipotesi come il ritorno del proporzionale, quando si discuterà la legge elettorale, e come un giro di vite sulla decretazione d’urgenza e la cancellazione del voto di fiducia subito.
Potrebbe farlo, ha sottolineato la stessa premier, anche senza assumere in cambio l’impegno di evitare il referendum. Dovrebbe farlo perché il rischio, altrimenti, è di ritrovarsi con un sistema in cui né il Colle né il Parlamento hanno più ruolo. E in quel caso resterebbe davvero solo il premier.