Il nuovo libro
Gli attraversamenti di Goffredo Bettini: quando politica, intellettuali e popolo camminavano insieme
Questa mutualità, che Goffredo descrive molto bene nel suo libro è quasi del tutto evaporata. È una delle cause, o degli effetti, dell’era del populismo. C’è ancora in Goffredo la speranza e la spinta perché il mondo cambi, un principio rivoluzionario che marcia di conserva con un istinto conservatore. Anche qui Berlinguer
Cultura - di Roberto Morassut
Credo di aver incontrato per la prima volta Goffredo Bettini intorno al 1982. Mi ero iscritto da poco al PCI, dopo una breve frequentazione della FGCI e in quel periodo ero stato chiamato a rafforzare la “squadra centrale” della Federazione romana che doveva affiggere in tutta Roma un manifesto contro la visita a Roma di Ronald Reagan. Di lì a poco sarebbe iniziato il mio percorso di dirigente politico, dall’organizzazione territoriale a quella cittadina – dove mi chiamò lo stesso Goffredo qualche anno dopo. Quando lo incontrai egli dirigeva la propaganda di Roma e doveva spiegarci il lavoro, abbastanza semplice, che dovevamo svolgere ma la conversazione prese altre vie, più complesse perché ci trattenne, sui vecchi divani di vim-pelle dell’atrio di Via dei Frentani, con un lungo discorso sulla pace e sulla situazione internazionale.
Eravamo tre ragazzi universitari assetati soprattutto di ideali, pieni di voglia di stare al mondo e di dare un senso alla nostra gioventù che non fosse il “muretto” della nostra periferia. Insomma, iniziò così un lungo rapporto di amicizia ed un cammino dalla stessa parte che dura tutt’oggi. Non ho mai avuto con Bettini un rapporto burocratico come spesso può esser capitato a molti e come può accadere ancora oggi all’interno di una struttura complessa e gerarchizzata come quella di un partito politico. L’amicizia è un campo semantico e valoriale centrale di questo suo ultimo libro che si articola in nove persone che per Goffredo sono state particolarmente significative e importanti per la sua formazione politica ma anche sentimentale. L’amicizia in politica non è una cosa facile, Goffredo lo dice chiaramente e condivido. La politica è il campo della lotta, della competizione, dell’affermazione di idee e personalità che mettono gli individui, prima o poi, uno difronte all’altro.
Può quindi mantenersi e addirittura rafforzarsi solo in condizioni speciali; condizioni che emergono chiaramente e piacevolmente dalla narrazione di “Attraversamenti” e che consentono di eludere, se necessario, differenze e incompatibilità ma non di elidere la chimica stabilizzante dell’amicizia. La prima condizione è una marcata affinità elettiva che funziona da emulsione dei fluidi delle persone, la seconda è il contesto che può fare da camera di compensazione della dialettica naturale – e in questo caso è la vita trascorsa nel Partito Comunista che fu, in questo senso, per molti uno straordinario fattore di composizione e civilizzazione dei gruppi dirigenti -, la terza è la pluralità degli “attraversamenti” che nel racconto di Bettini non riguarda – se non in piccola parte – il rapporto tra professionisti della politica ma in maggior parte tra politici e intellettuali. Grandi intellettuali. E qui c’è un primo elemento dell’ esperienza che Bettini racconta che mi ha molto fatto riflettere sulla profonda cesura generazionale che si è determinata a cavallo del passaggio di secolo tra classi dirigenti di allora e di oggi. E riguarda esattamente il rapporto tra politica e cultura, tra intellettuali e classe dirigente e tra intellettuali e popolo.
Questa osmosi, questa mutualità, che Goffredo descrive molto bene facendo leva sui suoi ricordi con immagini talora suggestive quanto ironiche e divertenti – basti immaginare la figura di Carmelo Bene che sale sulla presidenza di un convegno per domandare se davvero esso è stato promosso dalla “FGCI culturale” o da un branco di operai ignoranti – è quasi del tutto evaporata. E in poco tempo. Anche questa è una delle cause o degli effetti – non saprei valutare – dell’era del populismo, che, inutile illudersi, non è una stagione ma un’epoca e non breve. Va detto con chiarezza: la attuale generazione dei “cinquantenni” o anche oltre – mi includo senza vergogna – non ha avuto la possibilità di accompagnare la propria formazione politica con un rapporto fecondo, continuo, fertile e diretto con il meglio della cultura, dell’arte, della filosofia, della letteratura italiana o europea. Intendo una frequentazione “organica” – gramscianamente parlando. Rapporti certo. Cordiali, importanti ma sporadici. E quanto la cultura italiana negli ultimi 40 (bah!) o forse 50 anni ha percorso le vie di una relazione organica con i partiti e, attraverso o senza di essi, col popolo? Cosa vediamo oggi?
Partiti sempre più burocratizzati e essiccati in un consumato esercizio interno di tecnicalità gestionali degli aggregati di gruppo tra conformismo dei contenuti e confronto di potere; gruppi intellettuali sempre più rinchiusi nelle torri d’avorio dei loro solipsismi autoreferenziali – drammatiche le affermazioni di Umberto Eco sul popolo degli imbecilli che emerge dai social, – e conquistati dai ponti d’oro dell’industria editoriale e televisiva che paga per chiedere contenuti stereotipati e senza sorpresa e toni brutalmente polemici verso il mondo ed un popolo staccato da ogni intermediazione, che si agita come un’onda alla mercè dei venti, dei volti, dei sentimenti che di volta in volta paiono più adatti, sulla base di curiali algoritmi, a dirigere il mercato. Anche della politica. Non si sono sciolte soltanto quelle forme che hanno rappresentato l’ultimo scoglio teorico del pensiero di Mario Tronti e a cui spesso Goffredo si richiama, si è rotto il cristallo nel quale si rispecchiava quella parte della civiltà del Novecento, figlia dell’Ottocento. E ne sono risultate crepe deformanti, spicchi di riflessi, porzioni irrimediabilmente separate e non ricomponibili, almeno allo stato delle cose.
Non resta che uno spazio difendibile, quello della poesia, invincibilmente aggrappata alle ragioni del cuore, dell’inconsapevole emergere di qualcosa che non è mediato, non è dominabile e in quanto tale ancora rivoluzionario e che può essere percorso, più o meno abilmente, da chiunque lo voglia intraprendere. Nel libro di Goffredo emerge una grande nostalgia. Io l’ho percepita. Il che non vuol dire abbandonarsi al cuscino dei ricordi per accarezzarli. La nostalgia è un bel palliativo. Il passato è sempre migliore. Il paradiso non è alla fine dei nostri giorni ma all’inizio. Io la penso così. Ma coltivare la nostalgia serve a indirizzare in modo meno pauroso e angosciante il futuro. Per questo la cesura tra generazioni, anche nelle classi dirigenti, rende tutto così incerto e per certi aspetti terrorizzante. Si ha la sensazione di camminare sui carboni ardenti. I giovani dirigenti di oggi sono impauriti dal rischio di cadere, dall’assenza di reti. Sentimentalmente parlando, invece, ri- attraversare alcune cose o alcune persone aiuta a pensare che l’umano non è ancora totalmente vinto dalla tecnica ma ha un principio e una riserva superiore che si chiama “etica”, cioè governo dei comportamenti, strutturazione delle relazioni, mutualità. E quasi in modo commovente questa mutualità, questa etica dell’umano emerge dai racconti di Goffredo Bettini. Il sodalizio fraterno con Gianni Borgna è stato per me un costante sorriso lungo le quasi 80 pagine a lui dedicate.
Perché ho conosciuto Borgna, sono stato a lui molto legato, amavo la sua innocente arguzia, la sua sterminata cultura, mi riparavo spesso nei suoi consigli. Non ho conosciuto Pier Paolo Pasolini ma l’ho amato – forse come tutti – attratto dal suo contraddittorio strutturale e alimentato dai racconti dello stesso Goffredo, di Gianni Borgna e di Walter Veltroni, molti dei quali ho ritrovato nel libro, fino al fulminante e finale grido di Moravia in occasione dei suoi funerali: “E’ morto un poeta e di poeti in un secolo ne nascono pochi!”. Affermazione che ancor di più mi convince del valore rivoluzionario della poesia come ultimo spazio ancora palpitante e indipendente del linguaggio e del pensiero. Goffredo, direbbe Berlinguer, non ha mai smesso di credere negli ideali di gioventù. Non lo ha deformato il potere, non lo ha annacquato l’inevitabile ascesa sociale derivante dall’esercizio di importantissime funzioni nel tempo, non lo ha spento, nell’esercizio critico e nella ricerca intellettuale, il continuo stravolgimento degli scenari storici e politici che ha attraversato e affrontato da protagonista della sinistra italiana. E’ uno dei pochi esponenti politici italiani – insieme a Veltroni – che scrive di suo, che sa raccontare, che distilla con la scrittura uno studio profondo e una ricerca che precede la parola. E’ una caratteristica rara.
C’è ancora in Goffredo la speranza e la spinta perché il mondo cambi, un principio rivoluzionario che marcia di conserva con un istinto conservatore – anche qui Berlinguer. Nel suo “epilogo” conclusivo, che chiude il volume, Goffredo Bettini passa esattamente dalla fertile nostalgia degli “attraversamenti” al suo punto di vista sul presente e sul futuro della democrazia e della sinistra italiana chiedendo, nella sostanza, una maggiore radicalità. Che non significa un’astratta operazione di posizionamento politico ma una radicalità di contenuti, tenendo “tesa la corda tra tattica e strategia e tra realismo e utopia”. Atteggiamento che è sempre la via maestra di una politica riformatrice e al tempo stesso rivoluzionaria e che senza confondere la storia, ma lasciando ognuno al proprio posto, ha caratterizzato grandi personalità del movimento operaio come Lenin, come Gramsci, come Matteotti. Dopo la stagione del Pd “crocerossa”, buono per ogni governo di salvezza nazionale, occorre tentare di ricostruire un soggetto politico nuovo che – dico io, in parte d’accordo con Bettini – segni una cesura visibile col tipo di partito che – per responsabilità non solo nostre – siamo stati dal 2010 ad oggi.
Ed occorre una maggiore forza di credibilità riformatrice sui temi della sostenibilità, del fisco, dell’Europa – e quindi della pace e della politica estera dell’Unione. Aggiungo anche che occorre un maggior coraggio sul tema delle riforme costituzionali, tema sul quale con Bettini vi sono diversità di opinione. La politica e la ricomposizione con i saperi – che e cosa più ampia di un generico rapporto con gli “intellettuali” – è la premessa per un rapporto col popolo che contrasti, se non può sconfiggerlo del tutto – il male del secolo: il populismo. E questa ricomposizione tra intelligenze e destini, tra partito e classe è il flusso che percorre questo bel libro di Bettini. L’amicizia è descritta nelle sue ultime righe con lo stesso tenore del celebre sonetto dantesco: “Guido i’ vorrei che tu Lapo ed io”. “Gli amici si appartengono”, scrive Bettini. “Vorrei che tu Lapo ed io fossimo presi per incantamento”, scriveva Dante. L’amicizia è un “prendersi” e un “appartenersi”. Anche in politica.