I piedi in due staffe
Meloni alla corte dei neofascisti di Vox, sovranista e finto-europeista
La premier infiamma la platea della convention dei neofascisti spagnoli in videocollegamento tra il rituale “no al gender” e prudenza sull’Europa
Politica - di David Romoli
Giorgia Meloni è l’unica leader italiana per cui le elezioni del prossimo 9 giugno sono più importanti sul fronte europeo che su quello del “sondaggio” interno, aspetto invece prevalente per tutti gli altri: anche per chi, come Salvini e Tajani, gioca davvero anche una partita europea però molto meno rilevante di quella all’interno dei confini nazionali.
Per Meloni è vero il contrario: la registrazione dei rapporti di forza nel suo Paese, salvo clamorose e impreviste sorprese, è per lei molto meno rilevante di quella europea.
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In realtà quella partita è doppia e gli sforzi del capo del governo italiano mirano proprio a impedire che i due tavoli entrino in contraddizione tra loro e possibilmente, al contrario far sì che le due partite diventino sinergiche.
Per questo stupirsi per le parole che ha pronunciato, in videomessaggio, dalla convention degli alleati spagnoli di Vox, o per la sua semipresenza a fianco di sovranisti e neofascisti è del tutto fuori luogo.
Giorgia Meloni si muove su due tavoli distinti perché doppio è il suo ruolo: è la presidente del Consiglio di un Paese che nei prossimi mesi e probabilmente anni dovrà vedersela con l’Europa sul fronte oltre misura nevralgico dei conti pubblici ed è una delle principali leader della destra europea, forse quella che più di ogni altro ambisce davvero a fare della destra la forza portante dell’Unione europea, rimodellando così il dna stesso della medesima Unione.
Come premier Meloni ha bisogno di avere voce in capitolo nella formazione della prossima Commissione. Deve poter non solo indicare il commissario italiano da lei preferito senza incontrare ostacoli ma anche trattare su quelli degli altri Paesi.
Dunque deve far parte della maggioranza e la maggioranza, nel Parlamento europeo, si misura in una sola occasione: nel voto di gradimento o di rifiuto nei confronti del presidente indicato dal Consiglio, cioè dai capi di governo di tutti i Paesi dell’Unione.
“La vera sfida è costruire in Europa una maggioranza diversa da quella innaturale degli ultimi cinque anni, fatta da Ppe, socialisti e liberali”, ha ripetuto ieri la premier dopo aver fatto balenare lo stesso miraggio, nel collegamento con Vox.
Una simile maggioranza alternativa, composta da Ppe e liberali ma con i Conservatori al posto dei socialisti naturalmente le piacerebbe davvero ma lei per prima sa che è una missione impossibile e a palazzo Chigi, lontano dalla propaganda elettorale, lo dicono senza mezzi termini.
Da soli Popolari, Liberali e Conservatori non avranno la maggioranza. Del resto molti partiti che pure aderiscono al gruppo Ecr, come i polacchi del Pis o gli spagnoli di Vox, non voterebbero von der Leyen e difficilmente cambierebbero idea in presenza di altri candidati, comunque non se ciò imponesse di votare con i socialisti.
L’appoggio del gruppo di Identità e Democrazia, quello dei radicali a cui aderisce la Lega, è fuori discussione: partiti come il Rassemblement National francese o l’AfD tedesca non voterebbero con i Popolari e i Liberali, perché nei loro Paesi quelli sono i rivali e non gli alleati come in Italia.
Ma se anche scegliessero di cambiare del tutto indirizzo, il loro voto non sarebbe accettato perché oggi ci sono due “bestie nere” che in Europa sono considerate infrequentabili: la Lega e l’AfD molto più dello stesso partito di Le Pen. Non solo e non tanto per le loro posizioni radicali ma per le posizioni sulla guerra in Ucraina, il solo confine ancora invalicabile.
Meloni invece è decisa a votare per la presidenza della Commissione. Poi se la caverà spiegando che quel voto non implica affatto l’adesione a una maggioranza e del resto è già successo, a parti rovesciate, cinque anni fa quando il Pis polacco, allora al governo, votò per Ursula, e FdI, dall’opposizione no.
Ma c’è presidente e presidente e lo scherzetto di Macron e Scholz, dato che in Europa uno non vale uno e il parere congiunto di Germania e Francia sarebbe più o meno imperativo, potrebbe essere proprio impuntarsi su una presidenza per Meloni inaccettabile.
È un’ipotesi remota ma non da escludersi del tutto. Anche per questo la premier ha bisogno di un risultato che premi la destra e da questo punto di vista anche una buona affermazione del “gemello diverso” di Identità ha la sua utilità.
Un’ondata europea di destra renderebbe difficile ai leader europei chiudere la porta in faccia a lei e un candidato per lei accettabile, sia in quanto rappresentante oggi più eminente di quella destra, sia in quanto diga contro le tendenze più temute di quella onda.
Per questo, rivolta agli spagnoli, la leader di FdI ha certamente titillato i temi che infiammano la destra ma stando molto attenta a non calcare la mano.
Ha scelto il videocollegamento, cosa diversa dalla presenza in carne e ossa, ha usato toni più misurati del solito, almeno quando tiene comizi all’estero, ha ribadito più volte il suo europeismo, sia pure in tinta conservatrice.
E ha scelto temi fortemente identitari per la destra, come l’identità cristiana dell’Europa o le politiche gender che però non sono i campi davvero minati in Europa, come la guerra o le politiche economiche.
Perché la partita della Commissione europea si giocherà subito, per quella di un’Europa girata a destra c’è tempo. Il tempo necessario perché Le Pen completi il suo già avviato processo di normalizzazione e magari aderisca ai Conservatori, cosa che per ora non sarebbe nemmeno tanto gradita trattandosi di una competitor di prima categoria.
O perché la Lega diventi quella europeista del nord. E magari perché anche i reprobi tedeschi dell’AfD capiscano che per diventare una forza di governo devono decidersi a ripulirsi. Come ha in buona parte già fatto lei. Come sta facendo, con gli occhi sull’Eliseo, Marine Le Pen.