I tifosi della riforma
Schlein prova a fermare la deriva sudamericana della Meloni: Corriere e Repubblica diventano fan del premierato
Di fronte a una riforma che cambia radicalmente l’assetto istituzionale di questo Paese relegando il Colle e il Parlamento in un cantuccio, Polito e Folli minimizzano, sostenendo la volontà di potenza di Meloni
Editoriali - di Michele Prospero
Con Pupo e Zanicchi, che intonano la melodia in onore del “premier forte, anzi fortissimo”, anche Repubblica e Corriere si uniscono al coro che accompagna la volontà di potenza di Giorgia. Sul banco degli imputati Antonio Polito e Stefano Folli chiamano non un testo di riforma costituzionale assurdo, che la stessa Meloni dichiara di aver scritto con “la punta dei piedi”, ma la irresponsabile Schlein, rea di aver annunciato una dura resistenza, anche di piazza.
Secondo Polito, nessuno deve negare alla Fiamma tricolore la “legittimità” di una riscrittura della Carta, dato che già tanti altri in passato hanno tentato di fare la stessa cosa. Messa in questi termini, e affidando quindi alla consuetudine e ai precedenti la risoluzione di una questione di “legittimità”, si approda a un bel nulla.
Ad ogni modo, quello di legittimità è un concetto sfuggente, che, volendo tacere dei possibili sbocchi decisionistici, comunque racchiude in sé sempre un fondo aurorale, un richiamo a dei principi sostanziali.
Se sui cardini culturali e istituzionali della repubblica vi fosse convergenza, allora la ristrutturazione della legge fondamentale si collocherebbe al di fuori della legittimità assunta quale decisione ex novo di un inedito sistema di valori costituzionali, rientrando piuttosto nei confini della canonica “legalità costituzionale”.
Si tratterebbe, insomma, di una minuta opera di revisione costituzionale, dissonante però rispetto al proposito tanto sbandierato dal governo – che è il promotore della svolta istituzionale – di edificare la “Terza Repubblica”.
Se invece i fondamenti della repubblica non sono condivisi dagli attori politici, accade che una leader, sulla base di una rivendicata formale facoltà di decidere su qualsiasi materia, approfitta dei numeri occasionali in dotazione per regolare i conti con la detestata struttura parlamentare.
In uno Stato nascente, l’alternativa presidenzialismo-parlamentarismo rinvia a una opzione del tutto legittima tra due differenti assetti di governo. In una repubblica già esistente, invece, il mutamento integrale della forma di governo non è affatto una operazione neutra, anzi, esso sfida tanto la legalità quanto la legittimità.
Le costituzioni definiscono un sistema coerente, sopportano nel tempo anche degli organici interventi di manutenzione, richiesti per oliare meccanismi ritenuti oramai inceppati. Questi ritocchi vanno concepiti, però, secondo la stessa logica sistemica della carta fondamentale che si troverà a ospitarli.
Pertanto sono da escludere innesti estrinseci, inconciliabili con l’ossatura originaria, poiché le alterazioni da essi prodotte rimanderebbero ad un altro criterio di legittimazione e organizzazione dei pubblici poteri. Due logiche, due sistemi: una mediazione tra l’impianto parlamentare e un regime presidenziale non è concepibile per la palese contraddizione che perdura tra di loro.
Questo non significa una resa all’immobilismo: con una legge elettorale fresca di conio, il voto di sfiducia costruttiva e altri correttivi si otterrebbero degli obiettivi significativi di stabilità, senza però intaccare in alcun modo l’antica cornice parlamentare.
Polito, che in Inghilterra ci ha pure lavorato, potrebbe indicare al lettore i geniali meccanismi formali che garantiscono a Westminster il governo di legislatura. È evidente che la soluzione che Repubblica e Corriere auspicano, cioè il doppio turno per l’elezione diretta del premier, non scioglie il reale motivo del contendere: la permanenza o meno della repubblica parlamentare di matrice costituzionale. Che il premierato – quale che sia la formula elettorale per designare i deputati al seguito del capo unto dai cittadini – introduca una cesura storica, lo ha ribadito la stessa Giorgia Meloni al convegno-show.
Quando ha detto che la sua intenzione è quella di ricalcare un referendum “divisivo come quello del 1946”, la presidente del Consiglio ha chiarito che l’obiettivo della destra radicale non è una semplice riforma istituzionale, ma una rivoluzione che consegni il volto di una “nuova repubblica”.
Dunque, ricorrendo alle procedure legali, le quali per definizione trattengono entro sbocchi compatibili con le condizioni vigenti, la destra però persegue una indebita funzione costituente, che naturalmente oltrepassa l’equilibrio esistente dei poteri.
L’editorialista del Corriere strepita contro chi denuncia scivolamenti autoritari. Sospetta che il solo inciampo che sospinge verso la deriva sudamericana possa provenire da un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento.
Poiché il voto popolare diretto cura in radice la follia (mai da scartare) di ogni premier forte, e la concentrazione di qualsiasi potestà nelle sue mani lascia del tutto tranquilli, Polito suggerisce di restringere le prerogative del Colle.
La sua convinzione è che proprio nell’andatura a fisarmonica della massima figura di garanzia, che gode di una legittimazione solo parlamentare, si annida il buco nero della Costituzione del ‘48. Parole in libertà, perché contro un presidente della Repubblica sleale è comunque prevista l’attivazione del potere di messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune, mentre ogni difesa parlamentare per mettere in riga un premier che perde la testa si intende preclusa.
A via Solferino neppure sono sfiorati dal dubbio che il premierato elettivo, qualunque sia la legge elettorale adottata per accontentare i “riformisti” dialoganti, abolirà la separazione dei poteri. Il Parlamento disegnato dai “cognati costituenti” non gode di un’autonoma investitura: derivando la propria composizione soltanto dal premier vittorioso, in tal senso non è più un potere indipendente.
In fondo, nel progetto Casellati esiste un unico vero potere dello Stato: quello incarnato dal premier forte, che allestisce una “monocrazia elettiva” capace di gettare nell’oblio la bilancia di Montesquieu. Nell’incastro dei poteri, non sussistono più due organi distinti se entrambi vengono eletti tramite un atto unitario.
Sedotti dalle note di Pupo e Zanicchi, e alla ricerca della bella mediazione, Folli e Polito ignorano che la loro mitica scheda unica, grazie a cui si eleggerebbero con un sol tratto di penna premier, deputati e senatori, oltre ad essere un immenso foglio, che forse nemmeno entra nelle cabine, racchiude anche una grande incognita: è infatti tecnicamente impossibile garantire che la medesima maggioranza sia raccolta alla Camera e al Senato da un aspirante leader. Ma, certo, per i due giornali nessun rischio incombe, la follia è solo delle opposizioni che scelgono la battaglia esplicita per difendere la democrazia costituzionale.