La lezione del filosofo
Immanuel Kant: il pensiero del grande filosofo europeo e le guerre di oggi
Le sue lezioni sulla pace sono ancora la cosa più moderna della quale disponiamo. La negazione della guerra giusta, l’invocazione del diritto internazionale, il disarmo, la condanna per il moralismo politico e per il politico moralizzante. La forza collocata al di sopra delle nazioni
Cultura - di Michele Prospero
A trecento anni dalla nascita, i testi di Immanuel Kant sul diritto internazionale e sulla pace perpetua risuonano incomprensibili per un ceto politico europeo intento a scandire che le parole non servono, bisogna procurare a Kiev nuovi missili per continuare la guerra infinita.
Il tempo delle distruzioni, trascorso senza alcuno sforzo di negoziato, mostra che “fare uso di uomini come di semplici macchine” è ritenuta dalle cancellerie una pratica preferibile al linguaggio della politica.
Tacciato di irenismo, il filosofo di Königsberg è in verità attento nel distinguere il piano etico da quello empirico nel suo tentativo di trovare risorse istituzionali e giuridiche in grado di evitare che l’inimicizia tra le nazioni faccia precipitare “nel grande cimitero dell’umanità”.
Fa appello perciò alla “prudenza” politica per ancorare il progetto di un ordine giuridico internazionale alla contingenza storica e scioglierlo dai richiami pur suggestivi delle grandi costruzioni metafisiche sulla civitas gentium.
Quella da cui uscire, per garantire un miglioramento delle condizioni di vita, è la competitiva condizione di stato di natura o anarchia internazionale che vige tra gli Stati. La logica della sicurezza, che poggia sulla accumulazione di potenza di ogni singola nazione, alimenta la dotazione di munizioni sempre più sofisticate e registra l’infinito “gareggiare tra gli Stati in quantità di armamenti in una corsa senza fine”.
Nulla potrebbero, contro questa guerra sempre latente e solo sospesa, l’etica e la stessa idea pura di diritto se, alle limitazioni della sovranità in vista della cooperazione giuridica, non seguissero dei vantaggi “senza i quali la parola diritto non verrebbe mai sulla bocca degli Stati”.
La realtà della guerra suggerisce la possibilità di una copertura giuridica delle relazioni internazionali. Due sono gli ostacoli che per Kant impediscono “ai principi puri del diritto” di trascendere la inimicizia che si prospetta quando “ogni comunità nei rapporti esterni, cioè come Stato in rapporto a Stati, si mantiene in libertà illimitata”.
Il primo inciampo discende dall’eticismo sbandierato dai “moralisti politici”, costoro diffidano della politica ed esigono soluzioni definitive (repubblica universale, comunità cosmopolitica, unico Stato mondiale ovvero uno Stato di popoli).
Questa invocazione, ispirata a principi assoluti di unificazione del genere umano che si proiettano oltre una pluralità di enti indipendenti, è ritenuta, oltre che impraticabile nei grandi spazi, anche foriera di “un dispotismo senz’anima”.
Il secondo impedimento viene dai “politici moralizzanti”, gli attuali cultori di geopolitica onnipresenti nei talk, i quali, in nome di una scettica resa alle inflessibili grammatiche della forza, scambiano il realismo politico con l’irrisione delle questioni giuridiche coinvolte nelle ostilità.
Sia il “moralista politico” che il “politico moralizzante” escludono il disegno di oltrepassare la “triste esperienza” per cui ogni potere territoriale cerca di assicurare i propri confini “mediante gli armamenti sempre più estesi e non mai interrotti”.
Ricollegandosi al canone del realismo politico (“il politico pratico deve condurre lo Stato con principi ricavati dall’esperienza”), Kant affida alla costruttività politica la soluzione al dilemma di un ordine oltrestatuale, che contrae la “libertà brutale” intrecciata alla sovranità illimitata di ciascuna statualità.
Per contenere la guerra potenziale come istituzione sociale inestirpabile, non ci sono per i singoli paesi alternative alla genesi di un ordine legale per “impedirsi reciprocamente di cadere in uno stato di guerra reale”.
Il progetto kantiano di un “foedus pacificum” o unione-federazione di Stati disegna una cornice giuridica “nella quale ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche”.
Pur conservando la sovranità, requisito per essere riconosciuto nel sistema internazionale, ogni Stato deve concedere liberamente il potere coercitivo all’autorità comune posta al di sopra delle nazioni.
Entro un ordine che espropria ogni nazione del diritto di guerra (tutti gli attori devono “sottoporsi alla coazione di pubbliche leggi”) risultano compatibili la coesistenza di Stati sovrani e la loro subordinazione a “un diritto internazionale fondato su pubbliche leggi sostenute dalla forza, alle quali ogni Stato dovrebbe sottoporsi”.
Fenomeni di guerra sussistono anche nello Status iuridicus mondiale (assassini, avvelenatori, “false notizie” o altri “mezzi perfidi”) ma dovrebbe trattarsi di eccezioni poiché l’essenza del “diritto pubblico internazionale” è che ciascun ente sovrano, in nome di “una tenebrosa ragion di Stato”, non dispone più del ricorso discrezionale ai fucili (“se per diritto internazionale si intende il diritto alla guerra, esso non significa propriamente nulla”).
Per una più solida pacificazione servirebbe una espansione della forma di governo repubblicana. Mentre nell’autocrazia, dove “il suddito non è cittadino la guerra diventa la cosa più facile al mondo”, nello Stato libero o repubblicano, visto il peso in esso delle opinioni pubbliche (lo sanno gli editorialisti del “Corriere” infastiditi dalle resistenze alla escalation), i governanti “rifetteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco”.
La preferenza per il governo rappresentativo (“il repubblicanismo di tutti gli Stati presi insieme e in particolare”) non si spinge in Kant sino a fondare una asimmetria valoriale tra gli Stati che decidono di entrare negli organi delle nazioni unite come soggetti provvisti di personalità giuridica e destinatari di un comune obbligo al fine di regolare l’antagonismo (“si debbono sentire costretti ad accettare nei loro reciproci rapporti leggi coattive”).
Kant esclude che il diritto pubblico internazionale possa contemplare la supremazia di “una parte del mondo che si senta superiore ad un’altra” e per questo, accanto a Stati già liberali, esistono altri poteri territoriali reciprocamente autonomi (“l’idea del diritto internazionale presuppone la separazione di molti Stati vicini e indipendenti tra loro”).
In un ordine giuridico coesistono enti sovrani (qualcuno persino “viziato da ingiustizia”) e la prudenza politica suggerisce di riconoscere le diverse velocità nei processi di costruzione di una civiltà repubblicana.
Per questo panorama eterogeneo, Kant respinge ogni fondamentalismo dei diritti (gli Stati più che gli individui in quanto tali sono i soggetti del diritto internazionale) e suggerisce di accordare, a chi ancora non ha raggiunto una struttura repubblicana, il permesso di “rinviare l’attuazione di quel disegno a tempo migliore”.
L’intervento armato per deporre il tiranno, e sostenere i cenni di primavera in mondi non ancora moderni, non è raccomandabile poiché “non può pretendersi da uno Stato che esso debba abolire la sua costituzione, anche se dispotica, ma ch’è pur sempre la più forte in rapporto ai nemici esterni”.
Esistono Stati con tratti autoritari ma la sopravvivenza di un diritto internazionale minimo suggerisce di non enfatizzare gli scostamenti dai diritti sino alla rottura dell’equilibrio perché “una qualsiasi costituzione legale anche se solo in piccolo grado conforme al diritto è migliore che la mancanza di ogni costituzione”.
Seppure non ancora conformi alle esigenze giuridiche di un ordinamento repubblicano, gli Stati costituiti, con forme di dominio distanti dalle conquiste etico-politiche più avanzate, vanno considerati anch’essi come interlocutori non eludibili.
Niente può autorizzare la guerra di procura condotta da altri per conto di grandi potenze che imbastiscono una ostilità per determinare il mutamento di regime (ogni Stato “si governa civitas hibrida da se stesso, per mezzo del suo parlamento”).
Respingendo uno scontro epocale autocrazia-libertà, Kant rigetta l’impiego di categorie etiche nello scontro militare: la formula di nemico ingiusto si pone in contrasto con lo stato di guerra che è ingiusto in sé.
La qualificazione morale dei contendenti, dipingendo “come ingiusta la guerra dell’avversario”, andrebbe evitata in quanto, se è comprensibile per un belligerante pensare al nemico in termini negativi, non è però “lecito invocarlo, perché egli darebbe alla guerra un carattere penale e così di nuovo eserciterebbe un’offesa”.
Quando si perviene allo scontro tra una grande decaduta, che organizza una operazione speciale preventiva giustificandola con quello che Kant chiama il timore per “la potentia tremenda” di altri Stati rivali, che allargano le loro basi sino ad abbaiare nei confini, e una alleanza di potenze liberali che impegnano denaro e armi in soccorso alla guerra difensiva del paese aggredito, per un ritorno della politica andrebbe richiamato “il diritto d’equilibrio di tutti gli Stati che hanno un’azione reciproca gli uni sugli altri”.
Si tratta di un diritto alla multipolarità che non si affida alla dilatazione illimitata della parola delle armi e, per scongiurare la lotta permanente, ricorre alle mediazioni della “prudenza politica” quando non realistico pare l’obiettivo di annichilire lo Stato aggressore e “imporgli una nuova costituzione, che per sua natura reprima la tendenza di questo popolo verso la guerra”.