La guerra Russia-Ucraina

Pace, la parola che nessuno vuole pronunciare

Da quando il conflitto in Ucraina è in corso, la risposta dell’Occidente è solo una: F16. Possibile che Europa e Stati Uniti guardino solo all’esportazione militarizzata della democrazia? Così non finirà bene...

Esteri - di Michele Prospero

30 Giugno 2023 alle 14:00

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Pace, la parola che nessuno vuole pronunciare

C’è un termine che agli analisti crea un grosso nodo in gola. Ed è la parola pace. Il “macellaio” Putin è un despota spietato che ricorda quel caporale con i baffetti in scena negli anni Trenta? E allora “armi, armi, armi”. Lo zar è un autocrate infiacchito dai capricci del suo cuoco e ormai sulla via della deposizione? La risposta è sempre la stessa: aerei F-16 per spingersi sino alla vittoria. Quando la propaganda sostituisce l’analisi esente dal pregiudizio, ai commentatori toccano le stesse capriole (concettuali) compiute dai ribelli della Wagner, protagonisti di un dietrofront degno della migliore commedia all’italiana.

Le stesse firme, che fino a un istante prima della marcia dell’oligarca sanguinario avevano recuperato la categoria di “totalitarismo” per spiegare la ferrea natura repressiva della Mosca odierna, adesso sul Foglio ricorrono al concetto opposto, quello di “Stato fallito”, nel tentativo di descrivere una potenza così fragile e dispersa in una miriade di sovranità private da precludere ogni velleità di negoziazione. Con uno Stato totalitario, un novello impero del male da estirpare, non si tratta, perché la sua forza è eccessiva, il suo parlare vano; ma con uno Stato fallito è ugualmente sconsigliabile concordare atti impegnativi di pace, perché ogni sua frase risuona vuota per carenza di autorità.
Un totalitarismo che domina in uno spazio senza un potere monopolizzato, irresistibile e assoluto, è però una nozione priva di qualsiasi rigore analitico.

La categoria di sistema totalitario evoca il controllo assorbente, l’ideologia mobilitante, la continua politicizzazione di una massa in ogni istante inquadrata e indottrinata, la concentrazione “totale” delle funzioni. Queste caratteristiche sono in buona misura assenti in una Russia che stenta persino a imporre un reclutamento di fresche leve indispensabili per sopravvivere nelle trincee in una lunga guerra. La milizia Wagner, le cui origini si perdono nelle trame segrete di oligarchi e intelligence, serve non solo per condurre operazioni spicciole in ogni angolo del globo senza che la responsabilità ricada sullo Stato, ma anche per evitare le reazioni negative dei ceti medi cittadini di fronte alle richieste di arruolamento.

Più che integrare un modello totalitario, il quale postula pur sempre lo Stato-macchina e una solida struttura verticale di comando, la Russia attuale mostra cenni di dispersione di ogni autorità razionale-formale, con un miscuglio di figure dispotiche, eserciti privati che sfidano il potere ufficiale per non perdere denaro e influenza, oligarchie economico-politiche aventi in dote una micro-sovranità patrimoniale. La componente ideologica, del pari essenziale perché si possa parlare di totalitarismo, è poi piuttosto evanescente: manca quella fabbrica del mito (ben altra cosa rispetto a qualche spruzzata di post-verità) indispensabile per fornire alle masse i simboli di una credenza fanatica.

Il nucleo ideologico del putinismo è “l’eurasiatismo”, un sentimento collettivo di recriminazione e sfida più che una organica dottrina, affondante le sue radici in una tradizione culturale russa che è ben riassunta anche da Gramsci. Nei Quaderni egli annota: “La prima tesi dell’eurasiatismo è che la Russia è più asiatica che occidentale. La Russia deve mettersi alla testa dell’Asia nella lotta contro il predominio europeo. […] Gli Eurasiatici non sono bolscevichi ma sono nemici della democrazia e del parlamentarismo occidentale. Essi si atteggiano spesso a fascisti russi, come amici di uno Stato forte in cui la disciplina, l’autorità, la gerarchia abbiano a dominare sulla massa. Sono partigiani di una dittatura e salutano l’ordine statale vigente nella Russia dei Soviet per quanto essi vagheggino di sostituire l’ideologia nazionale a quella proletaria. L’ortodossia è per loro l’espressione tipica del carattere popolare russo; essa è il cristianesimo dell’anima eurasiatica”.

C’è, nell’eurasiatismo in lotta contro l’Occidente smarrito nei valori, per la corrosione innescata dal relativismo con il morbo della secolarizzazione, e indeciso nella politica, per le pastoie della democrazia parlamentare, una qualche tonalità rossobruna. Sulla tradizione e il sacro, che scaldano l’anima nera ostile al moderno individualismo, innesta i baffoni di Stalin, celebrato come un autocrate che ha guidato la “guerra patriottica”, ed è quindi compatibile con il culto della Nazione e della missione della Santa Madre Russia. La fortuna di Putin, quale nemico dell’egemonia del Washington consensus e a un tempo custode dei simboli eterni, è stata ampia e trasversale. “La sinistra tende a favorire la Russia di Putin per la sua posizione contraria alla Pax Americana, mentre la destra lo ammira per la sua «muscolarità» e la sua difesa dei valori tradizionali della civiltà cristiana/occidentale” (P. Giurlando, D. F. Wajner, Populist Foreign Policy: Regional Perspectives of Populism in the International Scene, London, 2023, p. 274).

La guerra solo in parte ha scalfito la presa dell’ex funzionario del KGB sulla destra mondiale, da Bolsonaro a Trump, da Orbán a Le Pen e Salvini – il partito di Meloni, invece, per ottenere legittimazione come forza di governo, ha abbandonato le simpatie filorusse a vantaggio di un atlantismo in forme polacche, che con Putin condivide il tradizionalismo di “Dio, patria e famiglia” –, e sui ranghi del populismo di sinistra sedotto dalle forti venature antiamericane. Il canto del cigno del nipote del cuciniere di Lenin, che si crede l’ultimo zar e per frenare l’ira vendicativa del suo chef maledice i dieci giorni che sconvolsero il mondo, spalanca situazioni di estrema incertezza.

Lo spettro atomico che segue al subbuglio della dispersione del potere sostituisce nei commenti l’euforia di chi assaporava la vittoria per implosione del nemico. Aveva detto saggiamente Macron che, accordato l’appoggio all’Ucraina invasa, bisognava fare comunque attenzione a “non umiliare” la Russia. La scelta della parola “umiliazione” non era casuale: la scienza politica francese colloca proprio questa categoria di origine psicologica al centro dell’interpretazione delle relazioni internazionali, viste come un gioco dialettico tra “riconoscimento preteso e umiliazione inflitta” (B. Badie, Humiliation in International Relations: A Pathology of Contemporary International Systems, Oxford, 2017).

Arrogante fu il comportamento scelto dai Paesi occidentali dopo il crepuscolo dell’impero sovietico quale potenza egemonica. Badie rammenta l’episodio emblematico di quando “Gorbaciov fu umiliato al G7 di Londra nel luglio 1991. Il presidente indebolito dovette attendere lunghe ore in anticamera”. Una volontà punitiva ha alimentato un sordo sentimento di rancore. Contro l’Occidente che pretende di dominare il mondo, a Mosca fanno appello all’autonomia nazionale. E “così il sovranismo diventa un’affermazione che esprime una reazione alle umiliazioni passate e presenti, e un mezzo per limitare la pressione oligarchica che continua ad escludere. L’antioccidentalismo – più o meno nascosto – è un modo per un potere emergente di ricostruirsi di fronte al «gruppo degli Stati di riferimento», che tende – nelle situazioni di crisi – a presentarsi come un Consiglio di amministrazione del mondo” (Badie, p. 94).

Il circolo umiliazione-esclusione-vendetta è alla base della dottrina neo-nazionalista russa e ridisegna la guerra contro l’Ucraina come reazione a una prepotenza originaria subìta. Alle ricostruzioni di Prigozhin, cui gli opinionisti delusi per l’insuccesso della cavalcata wagneriana hanno conferito i galloni nel campo della storiografia politica, restano preferibili le analisi di uno specialista come John J. Mearsheimer (The Great Delusion: Liberal Dreams And International Realities, Yale University Press, 2018). Egli se la prende con “i paraocchi liberali” che, in nome della democrazia e dei diritti umani da espandere, trasformano l’amministrazione americana in una macchina da guerra che ovunque sposti le sue attenzioni costruisce caos: “contrariamente alla saggezza prevalente in Occidente, una politica estera liberale non è una formula per la cooperazione e la pace, ma per l’instabilità e il conflitto” (p.16).

Le strategie di allargamento della Nato (e di sostegno, prima, alle cosiddette “rivoluzioni colorate” che scombussolarono gli equilibri in Georgia e in Ucraina, poi, alle proteste di Maidan che nel 2014 hanno portato alla deposizione del presidente filorusso Viktor Janukovyč) sono diventate dei fattori di forte destabilizzazione in Europa. Secondo Mearsheimer, “la politica americana nei confronti dell’Ucraina, motivata da logiche liberali, è la principale responsabile della crisi in corso tra Russia e Occidente”. Il militarismo “democratizzante” ha adottato logiche di potenza che hanno generalizzato il disordine, provocando anche l’isolamento occidentale dal Sud del mondo (che, non a caso, si rifiuta di sanzionare Mosca). La guerra di aggressione non è giunta da un giorno all’altro come una pura follia di un pazzo, ma è lo sbocco illegittimo di tensioni politiche che si sono accumulate negli anni sino ad esplodere nella violazione del diritto internazionale del 24 febbraio 2022.

“Chiunque avesse una conoscenza rudimentale della geopolitica avrebbe dovuto prevederlo. L’Occidente si stava muovendo nel cortile di casa della Russia e minacciava i suoi interessi strategici fondamentali” (ivi). Senza accompagnare alla netta imputazione giuridica della responsabilità, che ricade sulla Federazione russa quale Stato aggressore, una ricostruzione del quadro storico-politico degli ultimi trent’anni, è impossibile delineare una soluzione politica alla crisi. L’offerta “prendere o lasciare” – ampliamento della Nato, espansione dell’Ue e promozione della democrazia e del mercato – ha prodotto un cortocircuito, previsto peraltro ab origine dalla Francia e dalla Germania.

Non si cambia lo scenario bellico rinunciando a discutere di quella che Mearsheimer chiama “l’impresa di ingegneria sociale al centro di una politica estera liberale” che mira a portare l’Ucraina al di fuori dall’orbita della Russia. L’Europa, rassegnata ad essere un prolungato teatro di guerra, è diventata un cadavere politico che, nella sopraggiunta afonia francese e tedesca, consegna l’egemonia ai nazionalisti polacchi, ai baltici, ai nordici, che hanno un vero culto estetico per i carri armati. Serve la paroletta pace, la quale rappresenta tutt’altro che un vano messaggio irenico.

Essa è il fondamento stesso della politica, non solo per Kant, ma anche per Machiavelli e Hobbes. Senza una iniziativa che costruisce pace, si presenta il volto trasfigurato di un’Europa colpita come potenza economica, tradizione di grande pensiero, luogo per la definizione della politica, che prevede il tempo del conflitto e il momento del compromesso. Le aperture dell’Eliseo si sono perse nel vento, e con la voce francese anche quella del vecchio continente è precipitata nell’irrilevanza. L’irresolutezza tedesca nel disegnare una soluzione diplomatica alla guerra ha innescato processi di crisi interna che a Berlino rigonfiano i muscoli della destra con simpatie neonaziste.

30 Giugno 2023

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