Il libro sul conflitto
Non può esserci pace senza uno Stato di Palestina
“Ogni altra ipotesi è fondata sulla sabbia”, scrivono Capanna e Neri in Palestina Israele. Il lungo inganno e la soluzione imprescindibile. Un libro importante e onesto perché fondato sull’ “equivicinanza”.
Editoriali - di Umberto De Giovannangeli
Scrivere di Palestina e Israele senza cadere nella logica, infausta e infetta, dello schierarsi pregiudizialmente “pro” o contro” dell’una o dell’altro, è cosa bella e giusta ma, ahinoi, assai rara. Per questo, anche per questo, Palestina Israele. Il lungo inganno. La soluzione imprescindibile (Mimesis, 2024), di Mario Capanna e Luciano Neri, impreziosito dalle foto di Uliano Lucas, è un libro importante.
Perché intellettualmente onesto, e di questi tempi è tanta roba, perché unisce analisi e testimonianze personali, perché è un efficace antidoto al “virus” della demonizzazione dell’altro da sé, un “virus” che si alimenta di narrazioni che violentano la realtà e che ha come agenti diffusori quelli che gli autori indicano come i “pasdaran della menzogna”.
Quello proposto da Capanna e Neri è anche un viaggio nel tempo, che racconta di una generazione che aveva la Palestina nel cuore. Un viaggio emozionante, a tratti drammatico, iniziato ormai oltre cinquant’anni fa, negli anni ’70, che ha portato a incontri, relazioni e preziose testimonianze dai Territori occupati.
Un libro importante, dunque. Importante perché tutte le sue 276 pagine, sono percorse da un filo rosso di grande significanza, politica e intellettuale. Quel filo è l’ “equivicinanza”. L’esatto opposto dell’italico cerchiobottismo.
Il messaggio è chiaro già in una parte del titolo: la “soluzione imprescindibile” è la costituzione di uno Stato di Palestina, a fianco dello Stato d’Israele. Imprescindibile, spiegano gli autori, non perché risponde ad un astratto ideale di giustizia, e neanche perché è un passaggio ineludibile per dare stabilità a un Medio Oriente in fiamme.
Lo è anche per Israele, per la sua sicurezza, per la difesa dei due pilastri che ne furono a fondamento come Stato: la democrazia e una ebraicità inclusiva. “Al di là delle contorsioni delle cancellerie e dei governi – rimarcano Capanna e Neri – ora l’opinione pubblica mondiale si sta rendendo conto che senza la costituzione di un vero Stato palestinese, che conviva in pace con quello di Israele, non ci sarà mai la pace in Medio Oriente. […] Ogni altra ipotesi è fondata sulla sabbia”.
Una sabbia insanguinata. In questo e per questo, Capanna e Neri sono anche dei veri “amici d’Israele”. Dell’Israele che crede e si batte, anche in questi mesi terribili, per il dialogo, contro la deriva etnocratica e colonizzatrice imposta da un governo, in cui, per dirla con un efficace titolo di Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv, “i ministri fanno a gara a chi è più fascista”.
La storia non nasce il 7 ottobre 2023, l’ “11 settembre” d’Israele, con il devastante attacco di Hamas. E l’affermazione di Hamas – spiega bene Neri in un capitolo del libro- è un evento prevedibile, un disastro evitabile.
Lo scrive in un articolo, “profetico”, del marzo 2006: “Ciò che ha favorito, e favorisce, l’affermazione di Hamas è l’occupazione israeliana dei territori, gli attacchi ingiustificati, gli assassinii, i bombardamenti, il regime di apartheid, le punizioni collettive, le umiliazioni, gli arresti arbitrari, la confisca delle terre, la povertà e le condizioni di invivibilità della popolazione palestinese. E soprattutto la indisponibilità a qualsiasi soluzione globale e negoziale del conflitto da parte di Sharon, della dirigenza politica e militare israeliana, degli Stati Uniti e dell’Europa”.
Cinque mesi dopo, per aver ordinato lo smantellamento di undici insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, e l’evacuazione di neanche diecimila coloni – un nulla rispetto ai 700mila coloni che occupano la Cisgiordania – Sharon, il ministro della Difesa ai tempi del massacro di Sabra e Chatila – fu tacciato di tradimento da parte della destra di cui era stato uno dei miti, guidata dall’uomo che ancora oggi governa Israele: Benjamin Netanyahu.
Il “lungo inganno” è quello che si è dipanato in oltre mezzo secolo, che Mario Capanna declina efficacemente raccontando dei suoi numerosi viaggi, iniziati come leader di Democrazia Proletaria e da parlamentare – e degli incontri avuti con molti dei protagonisti, nelle due parti, di un conflitto senza fine.
Capanna racconta dei suoi incontri con Yasser Arafat e quelli con un grande d’Israele: Uri Avnery, il “padre” del pacifismo israeliano, autore di un libro che ha fatto storia: Mio fratello, il nemico. In quel libro, tanto distante nel tempo ma mai così attuale, Avnery lancia un monito: “Se non troveremo qualche soluzione, prima o poi, il Medio Oriente esploderà. I dirigenti moderati verranno soppiantati da fanatici religiosi, musulmani ed ebrei. Non ci sarà nessuno con cui discutere. Assisteremo a un cataclisma, a un olocausto nucleare che annienterà entrambi i campi avversi”. Un incubo sempre più concreto.
Il “lungo inganno” è nell’aver lavorato contro l’unica soluzione “imprescindibile”. “La vera questione del Medio Oriente – annota Capanna – non è che esiste un popolo in più: è che c’è uno Stato in meno. Finché questo nodo non verrà sciolto, la pace non sarà possibile, come l’esperienza di decenni dimostra drammaticamente. E fino a quando i perseguitati di ieri potranno reggere il ruolo dei persecutori di oggi. E a prezzo di quali infamie e di quali rischi?”.
L’Israele che si è battuta e continua a farlo contro il “lungo inganno”, si riconosce nelle parole, scritte su Haaretz, dal famoso scrittore sionista Ari Shavit, che Capanna fa sue: “Sembra che stiamo affrontando il popolo più difficile della storia, e non c’è soluzione con loro se non riconoscere i loro diritti e porre fine all’occupazione”.
Così è, o dovrebbe essere. Il “lungo inganno” svelato da Capanna e Neri è anche quello di una narrazione, veicolata dalla stampa mainstream nostrana, secondo cui “i palestinesi non hanno perso occasione per perdere l’Occasione”: quella di accettare le concessioni fatte da Israele.
Come la “generosa offerta” che Ehud Barak, allora premier laburista, avrebbe avanzato a Yasser Arafat nei negoziati di Camp David (con Clinton presidente Usa mediatore) agosto 2000. In un articolo su Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano israeliano, la docente e attivista Tanya Reinhart scrive un articolo titolato La grande truffa di Camp David.
“Non è vero – rimarca Reinhart – che ai palestinesi è stato offerto il 50% della Cisgiordania, peraltro in 7 cantoni separati tra loro; e che a Israele è stato assegnato il 10% più il restante 40% che sarebbe rimasto ‘sotto il controllo’ di Israele. Se ti annetti direttamente il dieci per cento – scrive Reinhart – se non accetti di smantellare gli insediamenti, se continui a rifiutare di tornare alle frontiere del 1967 e di restituire Gerusalemme est, se decidi di tenerti contemporaneamente intere aree come la valle del Giordano e di accerchiare completamente i territori palestinesi in modo che non possano confinare con nessun altro Stato che non sia Israele, oltre a conservare le cosiddette ‘ strade di raccordo’ e le aree adiacenti, il territorio assegnato ai palestinesi si riduce ben al di sotto del 40%, gran parte del quale da discutere chissà quando in un lontano futuro”.
Lo ricorda Neri. E, pensando all’oggi, lo sottolinea Capanna: “Il problema, dunque, non è il popolo palestinese, nonostante Hamas. È il delirio di Israele e dell’Occidente, che ha generato e genera mostri”.
Ricordarlo, ribadirlo, argomentarlo, è importante. Necessario. Ed è un dovere etico, oltreché professionale, per chi fa informazione. Un dovere eluso da molti, troppi. “E’ proprio vero – scrive Capanna : la prima vittima della guerra è la verità”. Palestina Israele. Il lungo inganno. La soluzione imprescindibile va controcorrente. Nella direzione giusta.