La riforma costituzionale
Prosegue la guerra tra Meloni e Salvini: premierato senza fretta per rallentare l’autonomia
Sì al premierato in commissione ma Fdi non ha fretta: l’obiettivo è rallentare l’autonomia per non regalare una bandierina per le europee alla Lega
Politica - di David Romoli
Il premierato ha superato in scioltezza il primo ostacolo: testo approvato dalla maggioranza in commissione con il voto della maggioranza e Iv che, rompendo il fronte delle opposizioni, si astiene. Già martedì la conferenza dei capigruppo del Senato potrebbe calendarizzare a spron battuto l’approdo in aula.
L’opposizione, come è naturale, protesta e strepita ma a rallentare i tempi, come non è affatto naturale, è proprio il partito che più di ogni altro vuole la riforma costituzionale, FdI. Il presidente della commissione Affari costituzionali Balboni, tricolore e uomo di fiducia della premier, è rilassato e pacioso: “Come dice giustamente il presidente La Russa bisogna lavorare senza ingiustificati ritardi ma anche senza fretta”.
Sino a poco tempo fa, per la verità, proprio i Fratelli sembravano i più presciolosi, volevano chiudere la prima lettura, in entrambe le Camere, in tempo per le europee. Cos’è cambiato? La risposta è evidente: bisogna rallentare la marcia dell’autonomia differenziata, Calderoli permettendo, perché quell’approvazione prima del 9 giugno sì che potrebbe risolversi in un guaio al Sud, che dall’autonomia esce ancora più a pezzi del solito.
Il prezzo però è rallentare anche il cammino del premierato. Di qui l’indolente tranquillità di La Russa, Balboni e l’intera truppa tricolore. Calderoli invece ha sempre più fretta. Per portare a casa la bandiera dell’autonomia entro il 9 giugno bisogna rispettare rigorosamente la tabella di marcia, che prevede l’approvazione alla Camera per il 29 aprile.
Missione impossibile senza forzare i tempi, magari anche convocando la commissione di sabato e domenica. A frenare però ci si mette proprio la Lega e non per astuto calcolo ma per una chiacchierata in corridoio di troppo.
In commissione si votava un beffardo emendamento dei 5S che chiedeva di togliere dall’art.1 della legge sull’autonomia una paroletta sola: appunto “autonomia”. L’articolo elenca i princìpi base che devono essere rispettati dalla legge.
I 5S propongono di eliminare da quei princìpi proprio la pietra angolare della legge, l’autonomia. Gli autonomi per antonomasia, i leghisti, sono fuori dall’aula. L’emendamento passa per 10 voti contro 7.
Il presidente della commissione Nazario Pagano, ineffabile, non fa una piega. Si informa sui precedenti, poi comunica che non essendo la procedura conclusa il voto non verrà verbalizzato e la votazione si ripeterà venerdì prossimo.
La forzatura è vistosa, la maggioranza se ne frega, l’opposizione, per una volta, insorge davvero e non per modo di dire. “Non accetteremo la dittatura della maggioranza”, si infervora la capogruppo del Pd Braga.
Lo stesso Pd, con i 5S e Avs, impugna il regolamento, segnala che la ripetizione del voto può effettuarsi solo in tempi rapidissimi e chiudendo le porte per impedire il rientro alla chetichella degli assenti, sottolinea col pennarello rosso il passaggio che affida al segretario d’aula e non al presidente di Commissione il compito di giudicare la validità o meno del voto.
Conclusione di Simona Bonafè, capogruppo Pd in commissione: “Chiediamo al presidente di rivedere la sua decisione. Se viene meno il suo ruolo di terzietà è complicato continuare il lavoro in commissione”. Pagano fa finta di niente.
Le opposizioni invocano l’intervento del presidente della Camera Fontana e della Giunta per il Regolamento. La questione resta aperta e a fronte di una forzatura così arrogante non sarà facile per la maggioranza passarci sopra.
Che sia stata proprio la Lega ad arrecarsi il danno, rendendo molto più facile il lavoro di chi, sia all’opposizione che nella maggioranza stessa, ha tutto l’interesse a rallentare la marcia di un provvedimento tanto inviso è sintomatico.
Per l’ennesima volta si conferma che la maggioranza è prima di tutto dilettantesca e sgangherata. Le forzature e le prepotenze arrivano di solito quando si tratta di correggere gli scivoloni, ormai già tanti da riempire un’enciclopedia.
Del resto a rivelare quanto maggioranza e governo procedano a tentoni non c’è solo l’incidente sull’autonomia. Ieri in entrambe le Camere è arrivato contemporaneamente il Def e in tutti e due i rami sono state approvate le risoluzioni a favore del testo.
Che però, come si sa, è per più di metà vuoto. Manca l’aspetto programmatico: quel che si intende fare, come e quanto il governo voglia e possa spendere, con quali prospettive. Era già successo, sia chiaro, anche se non precisamente spesso e la mossa del Def per finta è concordata con la Ue.
Ma resta che non restituisce l’idea di un governo che navighi con rotta sicura e non soltanto a vista. Sullo sfondo campeggia la figuraccia del Patto di Stabilità accettato dal governo, rivenduto mentendo come una quasi vittoria mentre è una sconfitta totale, poi non approvato nell’aula di Strasburgo dai parlamentari della maggioranza che si sono astenuti.
Certo la scomposta maggioranza può riconsolarsi pensando al Pd che dopo aver annunciato in lungo e in largo il voto contro il nuovo Patto ha poi scelto di astenersi per non urtare troppo Gentiloni e il gruppo del Pse, che ha votato a favore. Ma è una magra consolazione.