La nascita del Carroccio
Umberto Bossi e la nascita della Lega, 40 anni fa i leghisti calarono su Roma ladrona
All’inizio fu la Lega lombarda di Bossi. Poi l’asse con la Liga veneta. Tra piani secessionisti, folklore e alleanze tradite (vedi il ‘94) i padani sono stati protagonisti. Fino al flop di Salvini
Editoriali - di David Romoli
Se quarant’anni fa, quando l’anonimo ex tesserato del Pci Umberto Bossi diede vita alla Lega Lombarda, oggi Lega Nord, qualcuno avesse profetizzato che quattro decenni dopo si sarebbe trattato del più antico partito italiano l’avrebbero preso per pazzo due volte.
La prima perché neppure nelle più fantascientifiche immaginazioni compariva la fantasia di una scomparsa di tutti i partiti di allora, quelli della Prima Repubblica. Ma la seconda e principale ragione era che nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla sopravvivenza di quelle che all’epoca, e ancora a lungo, si sarebbero comunemente definite, nel Palazzo, “le leghe”.
Già, perché datare la nascita della Lega alla fondazione di quella lombarda è una convenzione storicamente discutibile. Al nord organizzazioni territoriali protoleghiste avevano cominciato a spuntare sin dalla fine degli anni 70 e almeno una è costitutiva del leghismo quanto quella di Bossi: la Liga Veneta di Franco Rocchetta.
Il successo dei veneti, che alle elezioni del 1983 elessero a sorpresa un deputato e un senatore avrebbe dovuto far suonare un campanello d’allarme. La sirena iniziò invece a suonare a distesa molto più tardi. La Lega lombarda, alle elezioni del 1987, aveva conquistato un seggio senatoriale, quello del Senatur, Umberto Bossi.
Nel 1989 veneti e padani si coordinarono, calamitando gruppi simili dal Piemonte, dalla Liguria, dall’Emilia e dalla Toscana. Nacque la Lega nord, anche se formalmente la confluenza dei veneti sarebbe arrivata solo nel 1991, e iniziò a dilagare nelle piazze settentrionali. L’anno dopo era il secondo partito in Lombardia, dietro la Dc ma sopra lo stesso Pci.
A quel punto i leghisti li sentirono arrivare proprio tutti, anche perché la marcia sembrava inarrestabili: 8% a livello nazionale nel 1992 e poi un’amministrazione dopo l’altro sino alla conquista nel 1993 del comune di Milano, sindaco eletto Marco Formentini.
Oggi lo shock provocato da quell’ondata improvvisa non se lo ricorda più nessuno ma fu davvero un trauma, non paragonabile allo smarrimento provocato decenni dopo dall’avvento meteorico dei Cinque Stelle o dall’impennata recente di FdI.
I leghisti erano visti davvero come alieni pericolosissimi, barbari che dal nord si preparavano a calare su Roma ladrona, minaccia concreta e immediata per la stessa unità nazionale. Bossi faceva il possibile per fomentare paure e accreditare la temuta immagine.
La sua alterità rispetto a tutti gli altri politici era totale, molto più di quanto non lo sarebbe oggi: si presentava in maglietta e in una celebre occasione persino in canottiera, tirava a spaventare invece che a rassicurare, ricorreva se del caso al turpiloquio.
I leghisti sembravano davvero i nuovi fascisti e Massimo D’Alema, nel 1992 capogruppo del Pds alla Camera, non esitò a proporre la sospensione delle elezioni a Mantova e Varese per impedire che fossero espugnate, come poi puntualmente accadde.
Ma Bossi, a differenza del suo pronipote degenere Salvini, non aveva solo il talento naturale del comiziante nato. Dietro la volgarità ruspante e ostentata celava una testa politica sottile ed è stata quella che ha permesso alla Lega di sopravvivere fino a diventare non solo di gran lunga il più antico partito del Paese ma anche, per certi versi, l’ultimo vero partito.
La Lega con Bossi nel pieno delle sue forze, poi con Bossi menomato dall’ictus che lo colpì nel 2004, infine senza Bossi, deve la sua longevità alla capacità di cambiare pelle come un serpente senza mai modificare, fino a Salvini, l’indirizzo di fondo.
La prima Lega, quella che teoricamente si fondava sul progetto del professor Gianfranco Miglio di dividere l’Italia in tre, era ruspante, aggressiva, antimeridionale ma soprattutto anti-romana, centrata sulla consapevole rappresentanza degli interessi materiali degli abitanti delle regioni settentrionali, inclusi, come in privato ammetteva tranquillamente Bossi deridendo le fantasie “suolo e sangue” di Rocchetta, i moltissimi di origine meridionale.
Rischiò di scomparire quando nel 1994 Berlusconi si presentò allo stesso elettorato in vesti però ripulite e accettabili. La Lega sembrava destinata alla scomparsa. La salvò la capacità tattica del Senatur: prima si alleò con lo scomodo nuovo arrivato, poi lo detronizzò dopo pochi mesi.
Chiuso tra il centrosinistra, con cui pure si era alleato per abbattere Berlusconi, e un forte polo di destra, Bossi si inventò il secessionismo, il culto del dio Po, una serie di pittoresche e ridicole manifestazioni che tuttavia svolsero la funzione che dovevano avere: cementarono un elettorato assottigliato ma fedele, resero la Lega indispensabile per vincere le elezioni politiche. Senza il Carroccio Berlusconi perse nel 2006 elezioni che altrimenti la destra avrebbe vinto senza sforzo.
Il Cavaliere, uomo di mondo, non portò rancore per lo sgambetto del ‘94. Alla fine del decennio tornò ad allearsi con i Padani e stavolta, reso edotto dalla scottatura del ‘94 a guidare quella che si era ribattezzata “Casa delle Libertà” fu, per la disperazione di Gianfranco Fini, proprio l’asse privilegiato per i due irriducibili nemici del ‘94, il Cavaliere e il Senatur.
Si vedevano una volta alla settimana da soli ad Arcore ed erano quei “caminetti”, come furono subito ribattezzati, a dettare la linea del governo anche dopo la malattia di Bossi, per il quale Berlusconi si prodigò con la generosità che tutti hanno sempre riconosciuto all’uomo, se non al politico.
La Lega cambiò pelle per l’ennesima volta. Nascose nei magazzini carnevaleschi le ampolle con cui si celebrava il dio Po e diventò partito di governo a tutti gli effetti, forse il più rigoroso e tecnocratico dell’intera destra.
Quando la leadership di Bossi fu abbattuta dagli scandali giudiziari nel 2011 il Carroccio sembrò ancora una volta destinato alla rottamazione. La segreteria di Roberto Maroni, eterno numero due della Lega e perfetto come uomo di governo ma molto meno come leader di partito, era debole, l’emorragia di consensi fluviale.
Nelle primarie per la nuova segreteria del 2013 il rampante Salvini sconfisse Bossi con l’82% contro il 18 dei consensi. La Lega di Salvini, si sa, ha tentato per la prima volta di cambiare rotta diventando partito nazionale, mettendo a margine la rappresentanza del Nord, puntando tutto su nazionalismo e guerra contro l’immigrazione.
Quell’operazione, dopo il successo iniziale è già fallita. La Lega sta tornando a essere quella che era, il partito delle piccole e medie industrie del Nord, anche se Salvini stenta a prenderne atto. In fondo l’autonomia differenziata altro non è che un passo da gigante verso il progetto delineato alla fine degli anni 80 da Gianfranco Miglio.