La leader di +Europa
Intervista a Emma Bonino: “Per fare l’Europa ci vogliono gli europeisti”
L’ex ministra è nelle librerie con "A cosa ci serve l’Europa". «Ci serve se la miglioriamo: politica estera e di difesa comune, un bilancio decente, una banca sul modello della Federal americana. Temo che la prossima campagna elettorale si giocherà su questioni da raccordo anulare...»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La nostra conversazione nasce da un libro prezioso, di stringente, drammatica attualità. Un libro che raccoglie l’impegno di una vita di due grandi europeisti: Emma Bonino e Pier Virgilio Dastoli. Il libro in questione ha come titolo A che ci serve l’Europa (edito da Marsilio, con prefazione di Corrado Augias, postfazione di Romano Prodi, in collaborazione con Luca Cambi).
Recita la nota di accompagno: “Ci serve davvero l’Europa? Non staremo perdendo tempo ed energie dietro a un’idea? Quella di oggi è la terra dei diritti immaginata a Ventotene? Mentre l’Unione è sotto attacco da più parti, accusata di essere una matrigna distante dai problemi reali dei cittadini, Emma Bonino e Pier Virgilio Dastoli, protagonisti indiscussi del progetto europeista, scelgono di intraprendere un viaggio nella memoria personale e collettiva che ci riguarda tutti da vicino. Ripercorrono lotte e progressi, sconfitte e conquiste, recuperano le tracce delle esistenze e delle aspirazioni di tante donne e tanti uomini che si sono battuti per costruire e difendere questo ideale, e invitano a prendere coscienza di quanto ancora resta da fare, senza però commettere l’errore di dimenticare, o peggio di gettare via, l’enorme lavoro svolto finora”.
L’Unità ne discute con Emma Bonino, Commissaria europea dal 1995 al 1999, ministra per il Commercio internazionale e le Politiche europee dal 2006 al 2008, vicepresidente del Senato dal 2008 al 2013 e ministra degli Affari esteri dal 2013 al 2014. Nel 2018 ha fondato +Europa, partito di cui è leader. L’impegno di Bonino ha come filo conduttore la realizzazione del “sogno spinelliano”: gli Stati Uniti d’Europa, o una declinazione federalista. Altro dall’Europa à la carte, in cui ognuno prende quello che più gl’interessa.
Una Europa che a una politica estera comune -senza la quale non ha senso pontificare sull’esercito comunesi aggiunga una fiscalità condivisa, e un’altra priorità dei nostri tempi: l’integrazione di migranti e rifugiati. Una necessità e non solo un fatto di giustizia e di umanitarismo.
Un concetto che Bonino declina così: “Di fronte al drammatico declino demografi co in Europa – non solo in Italia, ma anche per esempio in Spagna, Portogallo e Germania – l’ordinata integrazione di nuovi arrivati è vitale per invertire questo trend. È anche vitale non solo perché si basa su quei valori e principi che diciamo sempre di voler difendere in quanto europei, ma anche, come dicono tutte le ricerche economiche, per la ripresa economica stessa dell’Europa”.
Senatrice Bonino, alla luce delle guerre e del terrore che marchiano i nostri tempi, dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per la strage di Mosca e le tante guerre “dimenticate” in Africa, A che ci serve l’Europa è insieme un enorme punto di domanda e una sfida per un futuro che si fa già presente. A che serve l’Europa oggi?
Ci serve se la miglioriamo. Ci serve se andiamo avanti e abbiamo anche noi una politica estera comune, una politica di difesa comune, oltre che un bilancio decente e una banca modello Federal americana. Lasciarla così, l’Europa non serve a molto, anche perché la stragrande maggioranza dei leader non mi sembrano europeistissimi o federalistissimi. Ognuno fa e va per i fatti suoi. Chi va in Egitto, in Albania, in Tunisia, qualche altro va non so dove. In ordine sparso. Un grande caos di cui nessuno riesce a tirare il filo.
Una Europa che serva rispetto ai due grandi scenari di guerra che segnano i nostri giorni, dall’Ucraina al Medio Oriente, che politica dovrebbe adottare?
Intanto vediamo se ne adotta una. Cosa che a me pare assai lontana. Disperatamente, visto che io sono una federalista da sempre. È una Europa che forse potrebbe avere qualche capacità di prevenzione, me lo auguro. Ma questo è un auspicio. Quel che è chiaro è che in questo momento siamo in un caos dove non si capisce niente
Un caos che potrebbe portare ad una catastrofe nucleare?
È quello che sento dire e ripetere da molti. Io sono più dubbiosa perché una catastrofe nucleare non ha solo un vincitore, ha tutti perdenti. Sarebbero tutti perdenti.
Resta la drammaticità dello scenario russo ucraino.
Sto cercando di farmi una idea il più possibile compiuta della strage di Mosca. I quattro arrestati, torturati, portati in un tribunale con evidenti segni di sevizie, a uno hanno tagliato un orecchio e poi glielo fanno mangiare… Ferocia pura. Per andare dove, francamente non l’ho capito. È il ritorno dell’Isis-K? Non lo so e non capisco neppure quelli che hanno i grandi servizi di intelligence, se avessero mai capito qualcosa o preavvisato qualcuno. Mi pare di no.
E sul fronte mediorientale?
Se possibile, su questo fronte la situazione è ancora più confusa. Netanyahu ribadisce che entrerà, contro tutto e tutti, a Rafah, mente gli Stati Uniti per la prima volta non esercitano il veto ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che chiede il cessate il fuoco, la liberazione di tutti gli ostaggi ancora in mano ad Hamas o al Jihad islamico, e l’ingresso degli aiuti umanitari necessari per dare un minimo di assistenza e conforto ad una popolazione civile stremata. Sarà poco, ma è pur sempre qualcosa. Mi pare anche il segno di un ripensamento americano.
La decisione degli Stati Uniti non manifesta in maniera ancor più evidente, l’isolamento d’Israele nel mondo?
Temo di sì ma è anche quello che Netanyahu ha sempre sbandierato: possono dire quello che vogliono, noi comunque entreremo a Rafah. Qualunque cosa, ma noi prenderemo Gaza. E avanti di questo passo. Questa è stata una bandiera di Netanyahu. Non è la mia. E lo dice una che parteggia per il popolo israeliano dopo il 7 ottobre. Adesso non si capisce più dove vogliono andare a parare. Sul tavolo ci sono varie soluzioni: protettorato arabo, o di potenti arabi. Mi sembra sparita dal tavolo, al di là di enunciazioni retoriche, la prospettiva dei due Stati. Spero di sbagliarmi, ma non credo. Bisogna comunque stare molto attenti nel parlare, perché qui le cose cambiano repentinamente.
Quello che non sembra cambiare, per tornare al tema del libro, è il provincialismo con cui in Italia la politica discute del mondo ed anche dell’Europa.
Devo dire che non è da sola. Io faccio il giro di molti giornali internazionali e ho l’impressione che questa modalità si stia, ahinoi, diffondendo. Ogni tanto a Macron gli scappano frasi tipo la NATO non serve, è una istituzione con l’encefalogramma piatto, meno male che c’è però. È il provincialismo alla francese. Una grandeur verbosa ma sotto le parole poco o niente. Sulla difesa comune, su una politica estera comune, su una seria revisione dei trattati, solo chiacchiere e distintivo, verrebbe da parafrasare. A me pare che ci sia una grandissima confusione in tutti i Paesi. E penso, e temo, che anche la prossima campagna elettorale per elezioni così determinanti, si svolgerà tutta su temi da raccordo anulare, più o meno. O di cronaca nera.
O di disputa sulle candidature.
A questo non siamo ancora arrivati. Ma non c’è dubbio che ci sarà. È sempre stato così e non c’è motivazione o segnale che stavolta si cambi.
Un tratto distintivo della sua lunga e impegnativa vita politica è stato quello di non essersi mai accontentata del “male minore”. In Italia e, come racconta il libro, in Europa. Puntare in alto.
A volte è riuscito e altre no, come emerge anche dalla mia biografia, che ho scritto proprio per ricordare Altiero Spinelli. Anche lui guardava in alto e qualche volta cadeva disperatamente in basso. L’Europa è stata, è e sarà una impresa molto difficile. Una impresa contrastata fin dal ’54, dal fallimento dell’Europa della difesa per il voto dei gollisti e di De Gaulle in particolare. Poi siamo arrivati a far fallire il referendum sulla carta costituzionale per mano francese e olandese. Insomma, l’Europa non è stata una passeggiata rosa e fi ori. Nel ’90 abbiamo avuto attorno a casa nostra le grandi guerre balcaniche. Non si ricorda neanche più e si continua a dire che da ottant’anni viviamo in pace. Non è proprio così, se mi posso permettere. Io ho visto Sarajevo assediata d’inverno, il dolore, la sofferenza della popolazione assediata. Le fosse comuni, la pulizia etnica. La rimozione di questa tragedia non è solo una distorsione della storia. È immorale.
Per chiudere sul dibattito interno. Sembra che nel centrosinistra a prevalere sia l’”agropolitica”: campo largo, campo giusto, campo accidentato, e più velenosi, camposanto. Per lei qual è la prospettiva su cui lavorare, anche in prospettiva, ravvicinata, dell’appuntamento elettorale europeo?
Si chiama Stati Uniti d’Europa. L’ho detto in tutte le salse, facendo anche dei paragoni con il mondo federalista che conosco meglio, gli Stati Uniti, meno il Canada o la Germania. Ma lì, negli USA, so che non c’è solo un bilancio federale adeguato del 20% del Pil contro il nostro misero 1%. Il governo federale si occupa, appunto, di bilancio, con la Federal Bank, più politica estera e di difesa. Punto. Tutto il resto è sussidiarietà degli stati membri.