Il Consiglio Ue

L’Europa non c’è più, ora c’è un Consiglio di guerra: si al riarmo e addio alla pace

La premier tenta di derubricare a equivoco quanto scritto nelle bozze delle conclusioni del Consiglio europeo, ma crederle è impossibile. Il summit concluso ieri cambia radicalmente nell’essenza stessa dell’Europa

Politica - di David Romoli

23 Marzo 2024 alle 15:30 - Ultimo agg. 23 Marzo 2024 alle 20:35

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L’Europa non c’è più, ora c’è un Consiglio di guerra: si al riarmo e addio alla pace

Ma che avete capito? Quel passaggio nella bozza delle conclusioni del Consiglio europeo che citava “la necessità imperativa di una preparazione militare-civile rafforzata” non si riferiva mica ai rischi di guerra!

Era un riferimento alle crisi nel senso della protezione civile. C’è il termine ‘militare’ perché in alcune nazioni la protezione civile è militare”. A indurre l’equivoco è stato il posizionamento della frasetta, nel capitolo dedicato alla sicurezza: “Non a caso nella versione finale è stata messa a parte”.

“Perché nel Consiglio non ho visto un clima diverso dal solito in tema di preoccupazione. Nessun ‘Mettiamoci l’elmetto’ o ‘i cittadini sono in pericolo”. Certo “è ovvio che nessuno affronti una stagione come questa a cuor leggero”.

Al termine del Consiglio europeo, nel tradizionale punto stampa, Giorgia Meloni, eroica, si incarica dopo 24 ore e passa di tentare l’impresa impossibile: derubricare a equivoco l’allarme lanciato dalla bozza di conclusioni in circolazione il giorno precedente. Crederle è quasi impossibile.

Non solo perché la correzione, su un tema così delicato e vitale, arriva con immenso ritardo e affidata non alle istituzioni europee ma alla risposta di una singola leader alla domanda di un cronista. Procedura che definirla irrituale sarebbe poco e di rara sciatteria, quand’anche la si prendesse sul serio.

Soprattutto perché l’intero Consiglio solo di guerra si è occupato: di quelle che già ci sono, in Ucraina e a Gaza, e di quella che potrebbe arrivare in Europa. Senza contare il particolare per cui la frase successiva, riferita alla “gestione strategica delle crisi nel contesto dell’evoluzione del panorama delle minacce”, non sembra azzeccarci molto, e nemmeno un pochino, con frane e alluvioni.

La correzione è goffa e del resto la presenza o meno di quel passaggio cambia pochissimo. L’intera riunione aveva il marchio del Consiglio di guerra. Per quanto importanti fossero i capitoli Gaza e Ucraina, prioritari nella contingenza immediata, dal punto di vista strategico il tema per l’Unione più centrale è stato quello del riarmo, del potenziamento della produzione bellica e della difesa.

Non si è concluso niente, perché il braccio di ferro tra i Paesi che chiedono di finanziare il riarmo con gli eurobond e, dall’altro lato, i frugali che puntano i piedi non permetteva di concludere niente. Anche solo affrontare il nodo, alla vigilia delle elezioni europee, avrebbe significato complicare solo le cose senza alcuna chance di risolverle.

Ma se sul come finanziare il riarmo le divisioni ci sono, sull’obiettivo regna l’unanimità. E l’obiettivo è un’Europa che si prepara alla guerra. Non significa che il conflitto debba scoppiare davvero, fortunatamente, ma una strategia fondata sul riarmo implica conseguenze profonde e pesanti sulla vita degli europei, sulla spesa pubblica, sulla distribuzione.

Da questo punto di vista il Consiglio concluso ieri segna una modifica drastica e radicale nell’essenza stessa dell’Europa. A questo deve essere preparata la popolazione, ma certo con qualche cautela, quella che ha suggerito di derubricare l’allarme a faccenda di protezione civile, quasi sfidando il senso del ridicolo.

Quanto alle scelte sui conflitti in corso, nella sostanza il Consiglio ha concluso poco anche qui. Nessun problema sulla decisione di mettere dazi anche pesanti sui prodotti agricoli russi e bielorussi, nel quadro della guerra economica contro la Russia iniziata due anni fa o sull’avviare le pratiche per l’ingresso della Bosnia nell’Unione. Ma quello è il contorno.

Sul piatto forte, l’uso del 90% dei profitti degli asset russi pari a 3 mld l’anno congelati per finanziare le armi per Kiev, il passo avanti è minimo: l’impegno a considerare la proposta di mettere mano a quei profitti senza escludere la possibilità di adoperarlo per armi e munizioni.

“Se risolviamo gli ostacoli burocratici il primo mld potrebbe arrivare a Kiev già in luglio”, annuncia la presidente von der Leyen. Più che ottimismo una fantasia, dal momento che gli ostacoli non sono burocratici ma politici e bisognerà prima convincere l’Ungheria che per ora è contraria a inviare armi e anzi Orbàn ieri tuonava contro il folle clima bellico del consesso.

Su Gaza, invece, l’accordo, paralizzato dal 27 ottobre, è arrivato. Un testo equilibrato nella forma, che chiede la liberazione degli ostaggi “senza condizioni”, non dimentica le responsabilità di Hamas ma che essenzialmente chiede la pausa umanitaria in vista di un “cessate il fuoco sostenibile”, si schiera con massima fermezza contro l’attacco a Rafah, denuncia la situazione della popolazione civile con rigore e si schiera a favore dei due Stati in modo netto pur senza accogliere la proposta di alcuni di riconoscere subito lo Stato palestinese.

Le resistenze soprattutto della Germania, ma anche di Austria e Ungheria, sono venute meno anche perché sulla medesima linea si è schierato un Biden esasperato dall’intransigenza testarda di Netanyahu.

È un risultato reale ed è l’obiettivo che Mattarella, nel pranzo con la premier alla vigilia del summit, aveva indicato come prioritario. Ma è anche l’unico che non implicava alcuna scelta concreta immediata. Per il resto tutto è rinviato a dopo le elezioni europee. Ma la direzione è stata tracciata negli ultimi due giorni ed è una direzione armata. Molto armata.

23 Marzo 2024

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