Come salvare l'economia
Gender Gap: l’apartheid delle donne in Italia fra sfregi all’etica e danni al Pil
Il tasso di occupazione fermo al 51% contro il 69 di quello maschile, retribuzioni inferiori del 40%, 6 su 10 al Sud lavorano part-time. Dietro il debito pubblico c’è soprattutto la povertà del lavoro femminile
Editoriali - di Cesare Damiano
Il basso peso statistico delle donne nel mercato del lavoro italiano rappresenta un danno enorme per il Paese. Ciò perché non si tratta solo di una grave forma di ingiustizia. Ma è anche una delle cause della fragilità economica italiana.
Voglio qui citare, per introdurre l’argomento, un passaggio di un recente articolo dell’economista Veronica De Romanis. Scrive De Romanis che “la poca attenzione al lavoro femminile da parte della classe politica rivela una mancanza di visione d’insieme. E, soprattutto, di strategia a lungo termine. Perché un numero esiguo di occupate è una delle cause dei mali italici. Da ormai diversi decenni la nostra economia è avvitata in un circolo vizioso che funziona più o meno nel modo seguente: con meno donne al lavoro si produce meno ricchezza; quindi, le risorse da distribuire sono minori, di conseguenza, aumentano le disuguaglianze da mitigare con risorse prese a prestito, ovvero con maggior debito”.
La fragilità, insomma, alimenta la fragilità. La disuguaglianza produce disuguaglianza. La povertà produce debito. Debito che a sua volta impoverisce, con il proprio peso, chi ricco non è e dipende dal proprio lavoro, dalle fasce più deboli fino a un ceto medio che sempre più si restringe.
Debito che depaupera i servizi, la sanità e la scuola riducendo ancora gli spazi di equità sociale. Il problema non potrebbe essere posto in termini più chiari.
Cerchiamo, perciò, di capire a che punto siamo, servendoci di dati elaborati e diffusi in febbraio dall’Inps, in occasione del convegno “Analisi dei divari di genere nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale”, organizzato dal Consiglio di Indirizzo e Vigilanza e dalla Direzione centrale Studi e Ricerche dell’Istituto.
Partiamo dal differenziale occupazionale di genere. Nel 2022 il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni è stato pari a circa il 51,1%, a fronte di quello maschile che ha superato il 69%.
Ebbene, il divario occupazionale medio tra donne e uomini nell’Unione Europea è di circa 10 punti percentuali, mentre in Italia raggiunge circa 18 punti.
Passiamo al differenziale salariale di genere. Nel settore privato le retribuzioni annue percepite dalle donne sono, in, media di circa il 40% inferiori a quelle percepite dagli uomini.
Questa distanza deriva da differenze nel salario orario medio e nel numero medio di ore lavorate all’anno. Le donne, in poche parole, sono costrette, in ragione di diversi fattori, a lavorare meno e, perciò, a fare carriere con meno progressione salariale. Nel settore pubblico, invece, le retribuzioni annue percepite dalle donne sono in media di circa il 16% inferiori a quelle degli uomini.
In “merito alla distribuzione delle retribuzioni”, l’Istituto osserva che “a parità di caratteristiche individuali, occupazionali, di settore e area geografica, le donne hanno una maggiore probabilità degli uomini di ricadere nei decili medio-bassi della distribuzione delle retribuzioni annue e giornaliere e una probabilità minore di ricadere nella parte alta della distribuzione (dall’ottavo al decimo decile).”
L’Istituto identifica statisticamente cinque fattori che definiscono il gender pay gap:
1. Le donne sono messe in condizione di lavorare meno ore degli uomini. Socialmente, sulle loro spalle ricade una vasta porzione di lavoro non retribuito nelle attività domestiche e di cura. Di conseguenza le donne sono sovra-rappresentate nello stock del lavoro part-time;
2. Quello che viene definito come “soffitto di cristallo”: sta a indicare che le donne, molto più difficilmente degli uomini, raggiungono posizioni di vertice nel loro lavoro;
3. Quella che viene definita come “segregazione nel mercato del lavoro”: ci dice che le donne sono sovra-rappresentate in settori caratterizzati da bassi salari e che offrono scarse possibilità di carriera;
4. Con la stessa logica, le donne subiscono una forma di segregazione nelle imprese che pagano salari più bassi;
5. Infine, una vera e propria discriminazione: le lavoratrici si trovano facilmente in condizione di essere pagate meno degli uomini a parità di altre condizioni.
In merito al part-time, l’Istituto identifica anche quello che si potrebbe definire come un differenziale geografico, osservando che “nelle regioni del Sud il part-time nel settore privato tra le donne raggiunge il 64% in Calabria (32% per gli uomini), il 63% in Sicilia (29% per gli uomini), il 59% in Puglia (26% per gli uomini) , il 58% in Campania (28,07% per gli uomini).”
Si giunge così alle differenze nei giorni retribuiti. Per quel che riguarda il settore privato, nel 2022 il numero medio di giornate retribuite per le donne è stato pari a 221 contro i 234 giorni per gli uomini. Nel settore pubblico, con dati riferiti al 2021, il differenziale è stato di 291 giorni contro i 292 per gli uomini.
Quali, rispetto agli uomini, nel 2022, le qualifiche professionali delle donne occupate come dipendenti nel settore privato? Le apprendiste sono il 41,11%; le operaie, il 32,44%; le impiegate, il 58,38%; le dirigenti, appena il 20,99%. I settori di maggior impiego per le donne sono la sanità e l’istruzione.
Ma, dopo gli aspetti di carriera e retributivi – e anche in conseguenza di essi -, vediamo ora un altro dato, che si può dire faccia davvero male a questo Paese: nel 2022 le lavoratrici madri che hanno lasciato il lavoro sono aumentate quasi del 19% rispetto al 2021.
Il lavoro di cura familiare è un autentico strumento di discriminazione. E qui è senz’altro importante un intervento del legislatore per portare equilibrio nella situazione.
Si deve produrre una legislazione efficace, che oggi stenta ad affermarsi, per valorizzare il congedo di paternità obbligatorio, muovendosi verso un equo congedo di genitorialità.
Il congedo di paternità esiste nel nostro ordinamento soltanto dal 2012, previsto nella riforma Fornero. Allo stato delle cose, per il padre sono previsti 10 giorni di congedo obbligatorio retribuiti al 100%.
Un istituto lontanissimo dai 5 mesi del congedo di maternità. Rispetto al resto dell’Unione Europea, con questa misura, l’Italia si trova in fondo alla classifica. Una legislazione su un congedo di parità più efficace è un primo passo assolutamente necessario.
A incrociare quello degli interventi legislativi, c’è un altro capitolo di rilievo critico per l’equilibrio della situazione: quello delle politiche aziendali e della contrattazione.
Politiche aziendali che riducono il divario di genere, portano con sé una crescita delle competenze e un incremento di qualità dei processi. E trainano, tra l’altro, una crescita della reputazione dell’impresa.
Alla necessità di giustizia sociale, che riguarda i diritti delle lavoratrici, si accompagnano, nell’adozione di politiche di parità, benefici concreti definiti dal legislatore, come la certificazione della parità di genere che porta con sé sgravi contributivi.
Una forma di premio che può stimolare ulteriori azioni di valore sociale come assumere policy d’impresa per la conciliazione dei tempi lavorativi con quelli propri della vita privata. Come è giusto che sia.
Ciò, perché si deve ricordare che il quinto obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite è esattamente l’uguaglianza di genere. Obiettivo con il quale contrasta il fatto che, in molti contesti lavorativi, non siano stati ancora superati stereotipi anacronistici e fuori dalla realtà che vedono le donne inadatte a svolgere ruoli legati alle discipline definite dall’acronimo inglese “Stem”, ossia scienza, tecnologia, ingegneria e matematica.
In molte organizzazioni, come rilevato dal “Global gender gap report 2023” del World Economic Forum, la realtà lavorativa delle donne è ancora bloccata in questo quadro pregiudiziale.
Ebbene, per l’impresa questo è un limite funzionale che mortifica non solo le lavoratrici, che vedono frustrate le proprie aspettative, ma anche la capacità dell’organizzazione di raggiungere risultati migliori.
A quanto sopra si deve sommare un orientamento corretto della contrattazione. Si deve prendere atto del fatto che sta diventando sempre più anacronistico il solo criterio della presenza al lavoro ai fini della determinazione della retribuzione e della produttività dell’impresa.
In quest’epoca l’organizzazione del lavoro si spinge verso la valutazione dell’adempimento professionale in termini di obiettivi raggiunti, anziché, semplicemente, di ore lavorate.
Si pensi alle potenzialità dello smart working o al dibattito che si è aperto sulla settimana lavorativa di quattro giorni anche nel settore manifatturiero. Il criterio, rigido, della presenza in servizio può essere, inoltre, indirettamente discriminatorio.
Discriminazione che si manifesta in ragione del divario nel tempo lavorato che deriva, come abbiamo visto, dalla persistente asimmetria nella distribuzione dei carichi di cura tra uomini e donne. Il gender pay gap si può annidare nei premi di produttività e di risultato.
La diffusione del lavoro agile richiede di indirizzare le forme di retribuzione di produttività e per obiettivi, sulla base di sistemi trasparenti e rendicontabili che abbiano come fine ultimo il raggiungimento degli obiettivi attraverso una gestione elastica del tempo.
Da notare che una previsione legislativa in questo senso esiste già, laddove il comma 183 dell’articolo 1 della legge di Stabilità per il 2016, indica, ad esempio, che “ai fini della determinazione dei premi di produttività è computato il periodo obbligatorio di congedo di maternità”.
Dunque, applicando la norma, nella contrattazione aziendale si possono impedire pratiche potenzialmente discriminatorie, evitando ambiguità o vuoti normativi sul punto all’interno degli accordi aziendali.
Nel caso si intenda mantenere il criterio della presenza in servizio, l’impatto discriminatorio può essere disinnescato dall’introduzione nella contrattazione di misure correttive indirizzate a includere determinate assenze collegate ad esigenze sociali nel calcolo del diritto alla retribuzione.
E veniamo all’ultima tappa del percorso di discriminazione che colpisce le lavoratrici: quella previdenziale. Va da sé che tutto quanto analizzato sopra, conduce a questo punto.
Carriere saltuarie e più brevi, retribuzioni più basse che producono contribuzioni ridotte, producono, implacabilmente, la povertà pensionistica. E qui torniamo a quella fragilità sistemica che, attanagliando le donne, impoverisce il Paese.
Nel sistema previdenziale un gettito contributivo inadeguato si accompagna all’inesorabile invecchiamento della popolazione. Quindi, al di là delle rigidità dei criteri della legge Fornero, si è manifestata, nelle ultime due leggi di Bilancio – 2023 e 2024 – prodotte dal Governo Meloni, una stretta ulteriore.
Che, inevitabilmente, colpisce le donne in primo luogo. Lo scorso anno si contano 765mila nuove pensioni che rappresentano un meno 12% sul 2022. A crollare sono, ovviamente, le pensioni anticipate.
E l’arretramento più vistoso investe le donne: meno 28,5%, mentre gli uomini “pagano” il 7,4%. In particolare, ha inciso Opzione donna. Con la legge di Bilancio del 2022 la platea, composta da donne che, spesso, lasciano il lavoro per prendersi cura di un familiare, le cosiddette care giver, si era molto ristretta.
L’età di accesso si è alzata dai 58 a 60 e, poi a 61 anni. Il risultato è che nel 2023 le utilizzatrici di Opzione donna sono state appena 11.225, la metà dell’anno precedente. Si deve anche considerare che per metà delle percettrici l’assegno è inferiore a mille euro lordi mensili.
Torniamo, infine, all’argomento di apertura. La mancata evoluzione delle condizioni di lavoro delle donne è un problema di massima gravità per l’Italia.
La giustizia sociale produce anche maggiore ricchezza. Tener fermo il progresso della condizione delle lavoratrici è un feroce danno autoinflitto a tutto il Paese.
Fine terza puntata – Continua