La lettera al Csm
Woodcock non si ferma ai flop: condannati i suoi uomini, il Csm interverrà?
Una sentenza ha condannato i suoi uomini per come conducevano le indagini. Lui ha fatto causa a un suo imputato. Ci sarà mica incompatibilità?
Editoriali - di Piero Sansonetti
C’è una domanda che vorrei porre al vicepresidente del Csm, anche se so che non mi risponderà. Non per cattiva educazione, ma solamente perché con questa domanda lo metterò in imbarazzo, e lui non credo possa trovare una risposta ragionevole senza toccare i nervi scoperti delle Procure.
Prima della domanda una premessa con vari commi: c’è un Pm che esercita il ruolo di accusa contro un privato cittadino al quale ha fatto causa. C’è un esposto contro questo Pm, presentato dal privato cittadino, il quale sostiene che le indagini contro di lui sono state fatte in modo non legale. C’è ora una cosa in più: una sentenza solenne (parlo del caso Consip) che assolve tutti gli imputati – affermando che il caso Consip non è mai esistito, e se non è mai esistito e il processo però è durato sette anni e ha invaso le pagine dei giornali e delle Tv, vuol dire semplicemente che non esisteva il caso Consip ma esisteva la montatura Consip – e questa sentenza condanna solo due persone: due inquirenti.
Gli avvocati che ho consultato sostengono che non ci sono, in Occidente, precedenti. Cioè non era mai successo che un tribunale, nella medesima sentenza, sostenesse che l’unico reato riscontrato riguardava chi aveva indagato e non chi era stato indagato.
Gli inquirenti condannati sono ufficiali dei carabinieri incaricati e coordinati ovviamente dal Pm, e il Pm è lo stesso del quale abbiamo parlato nei capoversi precedenti. Adesso vi sveliamo il nome del Pm: Henry John Woodcock.
Henry John Woodcock è piuttosto famoso. Un napoletano con nome inglese che però la lingua inglese forse non la conosce bene: pensate che, sempre nelle indagini originate dal caso Consip, a un certo punto ha sostenuto che una azienda napoletana avesse nei suoi ranghi un “responsabile crimine”, e dunque che necessariamente fosse un’azienda criminale.
Il Pm aveva realizzato questa clamorosa scoperta grazie a una intercettazione. Poi però, riascoltata la intercettazione, è venuto a tutti da ridere (tranne che a Henry John) perché l’intercettato non diceva “responsabile crimine” ma “responsabile cleaning”. La parola cleaning (gerundio), in inglese vuol dire pulendo, pulizie, e l’azienda in questione è una azienda che si occupa di pulizie…Sembra una barzelletta, ma qualcuno c’è finito in prigione.
Il caso del quale sto parlando, e che conosco abbastanza bene, è il processo ad Alfredo Romeo. Il troncone principale si è concluso a Roma lunedì con la sentenza che vi ho detto. La quale sentenza certifica la colpa degli uomini di Woodcock, le falsità contenute nell’informativa degli uomini di Woodcock, e l’assenza di reati a carico degli imputati. Stabilisce anche qualcosa di più: che i carabinieri alle dipendenze di Woodcock – violando la legge – fornirono informazioni segrete al giornale “Il Fatto” e ad alcuni uomini dei servizi segreti. E dunque sottintende che la campagna di stampa che è stata il cuore pulsante e l’anima – e la sostanza – di questo processo, era originata da una fuga guidata di notizie. Su questa fuga di notizie sono state redatte pagine e pagine di giornale e persino un libro. Mammamia. C’è da inorridire.
Tenete conto che questo Pm sta ancora sostenendo le accuse contro Romeo e altri, in un processo in corso a Napoli, non ancora concluso, e le accuse si basano proprio su quella informativa dei carabinieri della quale vi abbiamo parlato, firmata da uno dei condannati dalla sentenza-Consip, e che dunque ha perso ogni possibile attendibilità.
Perciò il Pm si trova a dover sostenere l’accusa sulla base del nulla e per di più in evidente conflitto di interessi, perché essendo in causa con l’imputato appare come non avere più l’interesse soltanto a scoprire e stabilire la verità – che è il dovere professionale e morale di un magistrato – ma anche quello di ottenere la condanna dell’imputato per salvare se stesso.
Ora la domanda che pongo all’avvocato Fabio Pinelli, e attraverso di lui al Csm, è la seguente: ma secondo voi è giusto che un magistrato, che è inciampato in incidenti così gravi, e che ha guidato inchieste nel corso delle quali gli inquirenti hanno commesso reati ai danni degli indagati, possa continuare a svolgere spavaldamente il suo ruolo di inquirente e di pubblica accusa? E quali garanzie possono avere i cittadini che in futuro saranno indagati da lui -, e per i quali magari chiederà la prigione – che le indagini contro di loro saranno corrette?
Avvocato Pinelli, io sono tra quelli che non credono al valore dell’indipendenza della magistratura (che ormai è diventata discrezionalità e incontrollabilità), e non credo al valore dell’autogoverno, ma anche se dovessi accettare questi valori che sembrano sacralizzati dai giornali e da molti partiti, e sono diventati totem, mi chiedo: come ci si può fidare dell’autogoverno se poi non si interviene per colpire gli errori e gli abusi? Non crede che il Csm avrebbe il dovere di intervenire in questo caso, e ripristinare almeno una parvenza di neutralità, e difendere l’onore della magistratura e la sua credibilità?