La tragedia di Firenze
Crollo del cantiere di Firenze, è strage di immigrati: se non li respingiamo li mandiamo a morire
Quasi tutte straniere, probabilmente, le vittime del crollo nel cantiere del supermercato. Prima gli italiani? Sì, ma non sempre
Cronaca - di Iuri Maria Prado
Quando saranno accertate le cause della tragedia di Firenze, quando sarà chiarito se quelle cause includono la responsabilità di qualcuno, quando interverranno provvedimenti di giustizia o amministrativi apprestati a ricomporre la scena del macello, e a prepararla per un nuovo cantiere, ancora non sarà detto nulla più di quanto si sappia già perfettamente di questi disastri: e cioè che appartengono perlopiù agli stranieri venuti qui da noi a godersi la pacchia, i crani spaccati e i toraci macellati da quei crolli.
Quando l’area sarà rinettata, quando ne sarà ripristinata l’idoneità a funzionare in condizioni di più o meno precaria sicurezza, saranno ancora perlopiù gli immigrati a lavorarci, e a trasformarla nel supermercato di cui si parla per settimane non se c’è un incidente come questo, ma perché ha dato fuori uno spot con la bambina triste che vuol rimettere insieme i genitori separati.
Quando saranno ordinate le corsie e installati i banconi del nuovo esercizio, a riempirli saranno la frutta e le verdure tirate su ancora da loro, gli immigrati, tenuti a lavorare nelle piantagioni schiaviste e messi a dormire nella baraccopoli senz’acqua e senza fogne.
E loro, gli immigrati, quelli che bisogna respingere perché rubano il lavoro agli italiani, saranno ancora quelli che gli italiani mandano a lavorare dove è giusto che lavorino gli immigrati, in quelle piantagioni, in quei cantieri (lì vanno bene), saranno ancora quelli che gli italiani pagano il giusto, cioè la paga giusta per un immigrato, che è meno di quella che si deve agli italiani.
Loro, gli immigrati, saranno ancora quelli che costruiscono le case in cui non potranno mai vivere, saranno ancora quelli che lavano i piatti nei ristoranti in cui non potranno mai mangiare, saranno ancora quelli che fanno girare le cliniche, gli ospedali, le mense, le esposizioni fieristiche, i trasporti per il rifornimento dei centri commerciali nelle città da cui essi sono esclusi se non per tenerle in vita, in movimento, illuminate, ripulite, alimentate, spurgate.
Il proclama “prima gli italiani”, che nelle intenzioni di chi l’ha sempre sventolato voleva essere un programma, in realtà descrive abbastanza esattamente la situazione consolidata di indiscutibile separazione e subordinazione sociale, civile, economica in cui vivono gli immigrati.
E “prima gli italiani” descrive, appunto, l’esposizione prioritaria degli immigrati ai malfunzionamenti, ai difetti, alle sofferenze e ai collaterali di morte che sono il corollario sistematico delle società economicamente avanzate. Più libere, più giuste, più ricche, più civili e democratiche delle altre, ma ancora bisognose del lavoro e del possibile sacrificio di quelli che godono in misura assai ridotta di quell’avanzamento. E che sistematicamente, nei diritti, non vengono prima, ma dopo gli italiani: e prima di questi, semmai, solo sul fronte delle cause avverse.
Dimentichiamoci pure di quelli che provano inutilmente ad arrivare qui da noi. Duemilacinquecento, l’anno scorso. Un centinaio, solo tra Natale e Capodanno. Tre volte tanti, solo negli ultimi due mesi. Sette al giorno. Tutti i giorni.
Tutti poveri. Tutti morti. Dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Siria, dalla Costa d’Avorio, dall’Egitto, dall’Eritrea, dalla Nigeria, tutta gente che non ruberà il lavoro a nessuno, non porterà malattie, non si immischierà nel nostro sangue.
Dimentichiamocene pure. Ma anche se ce ne dimentichiamo restano quelli come loro che invece ce l’hanno fatta, quelli che invece sono arrivati dove gli altri non sono riusciti, per tenere in piedi la nostra economia, per asfaltare le strade su cui guidiamo verso le vacanze, per raccogliere i datterini che finiscono nelle insalatone del brunch, per portarci a casa la pizza e il sushi.