Cosa sta succedendo in Etiopia, una strage di morti per fame
Tra il 1983 e il 1985 il paese fu colpito da una terribile siccità che causò la peggiore carestia per gli etiopi in un secolo. I morti furono 1,2 milioni. A 40 anni di distanza l’Onu ha lanciato lo stesso allarme. Oggi come ieri, all’origine della mortalità c’è la violazione dei diritti umani
Editoriali - di Marco Perduca
Da qualche giorno su Netflix si può vedere The Greatest Night in Pop, un documentario che racconta cosa accadde la notte del 25 gennaio 1985 quando quasi cinquanta tra le star del rock e del pop made in USA si riunirono a Los Angeles per registrare il singolo ”We Are the World” col fine ultimo di raccogliere fondi per una delle peggiori carestie africane.
Tra il 1983 e il 1985 una terribile siccità aveva colpito l’Etiopia, la peggiore carestia subita dal paese in un secolo, causando 1,2 milioni di morti, 400.000 rifugiati e 2,5 milioni di sfollati interni. Si stima che quasi 200.000 bambini siano rimasti orfani.
A 40 anni di distanza le Nazioni unite hanno lanciato un allarme per lo stesso rischio di morte per fame o malnutrizione nelle stesse regioni dell’Africa orientale. Oggi, come allora, la mortalità era in primis causata dalle violazioni dei diritti umani.
Prima della carestia dell’83-85, due decenni di guerre di liberazione nazionale e altri conflitti armati interni avevano incendiato la regione del Tigray nel nord dell’Etiopia e al confine con l’Eritrea. Dopo un conflitto pseudo-secessionista e le violenze che hanno caratterizzato gli ultimi 50 anni di storia di quella parte del mondo abbiamo assistito inerti a nuove sistematiche violazioni dei diritti umani e decine di migliaia di morti.
Oggi come ieri la caratteristica dei combattimenti è stata l’uso della violenza indiscriminata contro i civili da parte dell’esercito etiope con incursioni aeree. Escludendo le persone morte a causa della carestia, il conflitto armato interno e internazionale degli anni ‘70 e 80 provocò oltre 150.000 morti, una cifra probabilmente di molto inferiore dalla guerra del 2020 (anche se impossibile da verificare indipendentemente).
L’economia dell’Etiopia di allora era basata sull’agricoltura – quasi la metà del PIL era legato all’agricoltura – mentre oggi si limita al 37,5% con il 36,25% prodotto da servizi e un 21,85% da industria.
Quel che non è cambiato, malgrado il Nobel per la Pace assegnato al presidente Abiy Ahmed Ali “per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto al confine con la vicina Eritrea” è l’alto tasso di bellicosità del paese specie, per l’appunto, nelle regioni settentrionali.
La guerra nella regione del Tigray, la stessa dove la carestia degli anni Ottanta colpì maggiormente, dal novembre 2020 al 2022 ha visto il confronto spietato tra le forze del governo federale etiope e dell’Eritrea con il Fronte di liberazione popolare del Tigray.
Le origini del conflitto andrebbero ricercate nelle complicatissime dinamiche della guerra civile etiope, con brutali violenze interetniche e il conflitto con la vicina Eritrea, mentre gli effetti della controffensiva di Addis Abeba contro i ribelli tigrini ricordano molto le carneficine dei primi anni ‘80.
All’uso massiccio di bombardamenti anche aerei si aggiungono le peggiori violazioni dei diritti umani da parte dei militari etiopi ed eritrei e, ancora oggi, la chiusura delle vie di comunicazione per consentire l’arrivo degli aiuti umanitari.
A più riprese il Programma alimentare mondiale ha denunciato assalti ai propri convogli con il dirottamento di generi di prima necessità alimentare verso le forze dell’esercito etiope lasciando le popolazioni civili prive di acqua e cibo per gente che come unica via di fuga dal conflitto ha il Sudan…
Ad ottobre scorso è scaduto il mandato per gli investigatori delle Nazioni unite che erano stati chiamati a documentare le violazioni dei diritti umani nella regione; una decisione fortemente stigmatizzata dal gruppo di esperti stessi per “il rischio enorme che le atrocità sui diritti umani sarebbero continuate” a seguito della loro partenza. Cosa che purtroppo si è puntualmente verificata.
Come spesso gli accadeva, il Partito Radicale di Marco Pannella prevedeva disastri frutto dell’inanità della Comunità internazionale. Nel 1979, infatti, a seguito della denuncia dell’Unicef che milioni di persone sarebbero morte per fame nel sud del mondo in assenza di una mobilitazione internazionale, Pannella iniziò uno sciopero della fame (che durerà 40 giorni) per chiedere un intervento trans-governativo straordinario per salvare subito almeno cinque milioni di persone. Negli anni in cui la retorica terzomondista invitava a “insegnare a pescare” piuttosto che distribuire pesci, la pragmaticità radicale si “accontentava” di grano e miglio subito.
Alle strategie tradizionali fondate sugli aiuti all’industrializzazione e al commercio dei paesi poveri, che avrebbero dovuto metterli in grado di acquisire sul mercato i mezzi di sostentamento alimentare, il Partito Radicale contrapponeva un’impostazione diversa: contro lo sfruttamento monocolturale dei terreni, che causava la fuga delle popolazioni dalle campagne per creare ghetti urbani col conseguente degrado del territorio e corruzione politica e comune, occorrevano interventi straordinari tendenti a risolvere innanzitutto i bisogni primari per salvare il maggior numero di vite umane possibile.
Erano gli anni in cui le Nazioni Unite avevano chiesto ai “paesi industrializzati” di destinare almeno lo 0,70% del loro PIL a politiche volte alla cooperazione e sviluppo. Erano altri tempi, anche per il Partito Radicale, ma era chiaro che in parallelo allo straordinario sforzo umanitario occorresse metterne in campo uno contro le guerre (all’epoca contro il disarmo – anche unilaterale, sic.).
Oggi che quella parte del mondo è diventata, almeno a livello di regime, talmente ricca da esser stata invitata a far parte dei BRICS, l’alternativa del “sud del mondo” al G7, il problema dei conflitti armati nazionalisti persiste.
Inoltre, a differenza degli anni ‘80, oggi le informazioni, o gli allarmi, non ci arrivano con giorni o settimane di ritardo rispetto ai fatti, pressoché dappertutto siamo inondati in diretta da immagini delle peggiori nefandezze umane, eppure nessuno si è azzardato di ritirare il Premio Nobel ad Aby Ahmed e, quando era a Roma per la Conferenza Italia-Africa, dove ha ricevuto tutti gli onori del caso dal Governo Meloni, in una cerimonia alla FAO Abiy è stato insignito della prestigiosa Medaglia Agricola “per la sua visione, leadership e impegno a favore della sicurezza alimentare e della nutrizione, nonché per la ricerca dell’innovazione”.
La tragica carestia del 1983-85 mosse l’opinione pubblica mondiale grazie al cantante Bob Geldof che a novembre del 1984 aveva raggruppato il meglio della musica pop britannica e qualche settimana dopo suggerito a Quincy Jones di fare altrettanto negli USA (come racconta il documentario su Netflix) per produrre “Do They Know it’s Christmas” e “We Are the World” due canzoni che ottennero un ottimo successo di pubblico e (giustamente) pessimo di critica.
Malgrado non fossero all’altezza di chi fu coinvolto furono raccolti decine di milioni di sterline e dollari che furono impiegati per fornire dei primi aiuti alle popolazioni in Africa orientale. Il 13 luglio del 1985 si tenne il Live Aid, due mega-concerti a Londra e Philadelphia dove chi aveva partecipato alle registrazioni delle due canzonette in studio si riscattò dal vivo in quello che è passato alla storia per essere il concerto più lungo mai tenutosi.
Tutti i tentativi di ripetere quella lodevole iniziativa negli anni successivi si sono rivelati uno peggio dell’altro dal punto di vista musicale quanto economico. Quel che però occorre oggi non sono tanto i soldi ma la politica, una politica che, piuttosto che dispensare onorificenze, si imponga con chi viola i diritti umani e lancia guerre ideologico-identitarie. Altrimenti tutti i piani di finanziamento di infrastrutture – paritari e non predatori – non serviranno ad altro che a consolidare il potere nelle mani di chi ne da sempre ne abusa sistematicamente.