L'istinto forcaiolo del Paese

Travaglio si inchina al regime di Orban, il Fatto esalta le manette alla Salis

“L’Ungheria è uno Stato di diritto, i magistrati sono indipendenti”. Il Fatto e Libero concordano in nome dell’idolatria per la manette propria della destra conservatrice. Che non considera un problema la deriva autocratica di Budapest

Editoriali - di Michele Prospero

7 Febbraio 2024 alle 16:30

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Travaglio si inchina al regime di Orban, il Fatto esalta le manette alla Salis

Nei dibattiti sulle catene fissate sul corpo di Ilaria Salis si riscontra una significativa concordanza di giudizio tra giornali diversi come Il Fatto quotidiano, la Verità e Libero. Non si tratta di una occasionale confluenza attorno a un caso specifico, dietro c’è una più sostanziale condivisione dei paradigmi all’insegna di una comune impronta conservatrice nella lettura delle libertà dei moderni.

Secondo Marco Travaglio, c’è poco da ricamare perché “l’Ungheria è uno Stato di diritto, con una magistratura indipendente dal governo, ancorché con codici più severi e trattamenti carcerari più incivili dei nostri”.

È evidente che il suo giustizialismo ha una connotazione di destra. L’incapacità di condannare le pratiche illiberali di Trump o di Orbán è in lui fuori discussione. Il modello ungherese, salutato da Travaglio come un normale “Stato di diritto”, magari solo un po’ più rude nelle forme di sorveglianza e punizione, tra gli studiosi è stato invece dipinto come Frankenstate (Kim Lane Scheppele), Führer Democracy (Lengyel László), democratura plebiscitaria o regime ibrido (Dániel Hegedűs), autocrazia elettorale (Attila Ágh).

Quando Viktor Orbán ha conquistato i due terzi dei seggi (il trionfo del 2010 è stato poi replicato nel 2014, 2018 e 2022), ha ordinato con la dura legge dei numeri una “rivoluzione conservatrice”.

Per prima cosa, il vincitore ha affidato al Sangiuliano magiaro il compito di raccontare un’altra storia: il revisionismo di Budapest è propedeutico alla cancellazione delle responsabilità del governo fascista di Ferenc Szálasi. Gli esecutivi guidati dal Partito dell’Unità, prima, e quello fantoccio filonazista trainato dal leader delle Croci Frecciate, poi, hanno deciso l’eliminazione di 560.000 ebrei ungheresi.

Dopo l’azzeramento della storia reale per fabbricarne una in laboratorio, la chiamata in servizio dei Calderoli e Casellati in abiti ungheresi ha formalizzato il secondo passaggio: la legale edificazione di un forte sistema di potere personalizzato. Nell’arco di un anno, Orbán ha forzato i tempi e ultimato la “Costituzione di Pasqua”, portata in aula in nove giorni e votata dal solo partito al potere.

Paul Lendvai, nel suo saggio su Orbán: Hungary’s Strongman, uscito nel 2018 per i tipi della Oxford University Press, ricorda che la nuova Carta “è stata scritta da József Szájer, fondatore di Fidesz ed eurodeputato, sul treno da Bruxelles a Strasburgo sul suo iPad”.

Un punto qualificante del testo, che si apre con un preambolo riservato alle narrazioni storiche ufficiali sulla Ungheria come comunità di fede, è l’imposizione di uno Stato confessionale. Viene infatti adottata una morale pubblica che innalza il vessillo della Sacra Corona di Santo Stefano quale sostegno di una omogenea democrazia identitaria.

Riconoscendo il cristianesimo con i suoi dogmi come “confessione nazionale”, vengono decurtati gli spazi di libertà per le religioni minoritarie, per gli agnostici, per i rom. In nome dell’etica cristiana, sono stigmatizzate le preferenze sessuali ritenute eccentriche, osteggiate le coppie di fatto.

La Legge Fondamentale contrappone le radici cristiane del vivere sotto lo scudo di fede e carità allo Stato di diritto, quale brutta invenzione occidentale che garantisce i diritti all’individuo. Ne scaturisce, osserva András L. Pap (Democratic Decline in Hungary: Law and Society in an Illiberal Democracy, Routledge, 2018), un monoculturalismo giuridico di matrice alquanto illiberale.

L’appartenenza alla superiore comunità etnico-religiosa precede con i suoi simboli la libertà-dignità personale. Dell’Europa modernista, relativista e cosmopolita, Orbán gradisce i fondi generosi, rigetta invece ogni apertura ai diritti fondamentali della persona. Con protervia egli nega l’applicazione in Ungheria del programma del’Ue di ricollocazione dei rifugiati. Le procedure di infrazione davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea non intimoriscono il leader ungherese, che sa trarsi d’impaccio grazie a contrattazioni e ricatti.

La continua costruzione del nemico, unita alla denuncia di una persistente situazione di emergenza da fronteggiare con misure tempestive extra ordinem, denota un esercizio del potere che persegue la sistematica contrazione delle garanzie e delle forme. Il primato del politico sopprime l’autonomia del diritto. Quello che Meloni ha per ora solo minacciato, inducendo Amato a dimettersi dalla Commissione sulla intelligenza artificiale, Orbán lo ha messo in pratica identificando sempre più il partito, lo Stato e il leader.

Per occupare la Corte costituzionale, egli ha dapprima aumentato la sua composizione numerica (da 11 a 15 scranne), poi ha esteso la durata del mandato di giudice costituzionale a 12 anni, infine ha nominato quali membri solo figure vicine al suo partito, talvolta neppure laureate in legge e con scarsa competenza giuridica.

Intimando ai magistrati ordinari il pensionamento anticipato, ben 274 giudici sono stati allontanati dai tribunali circa dieci anni prima dell’età prevista. La campagna per l’egemonia ha spinto a stabilire che persino la designazione del rettore delle università tocca al governo.

I media sono stati omologati, alla causa del regime personale sono piegate le reti pubbliche e quelle private. In ossequio alla lotta contro le fake news, lo Stato censura e monopolizza le fonti dell’informazione per pretendere il rispetto della verità e della morale ufficiali.

Nel solco di un occasionalismo politico di stampo schmittiano, subito dopo aver imposto una Costituzione su misura, oltre a una differente legge elettorale che contempla una ripartizione dei collegi più vantaggiosa per il governo, Orbán ha varato a pioggia nuove leggi costituzionali motivate da pure esigenze immediate di potere. Fino al luglio 2022, cioè in appena dieci anni, l’esecutivo, appannando la distinzione tra modifiche della Carta e legislazione ordinaria, ha introdotto ben 11 emendamenti per la revisione costituzionale.

La rappresentanza è diventata un mero simulacro al cospetto di un governo che legifera per decreto alterando ogni equilibrio-separazione dei poteri. Ellen Bos e Astrid Lorenz (Politics and Society in Hungary: (De-)Democratization, Orbán and the Eu, Springer, 2022) ripercorrono i gravi processi di involuzione democratica, con un parlamento monocamerale del tutto svilito che sforna leggi alla velocità media di un atto ogni ora e 15 minuti.

Appena 120 minuti sono bastati all’Assemblea nazionale per votare la famigerata disciplina sulla recinzione dei confini meridionali minacciati dai profughi. Non mancano provvedimenti presentati e approvati nel giro di 10 minuti.

Per ostacolare il rischio di un ricambio politico (dal 53% del 2010 il suo consenso è ora stimato attorno al 45%), Orbán ha inventato anche un originale istituto di rango costituzionale: il Consiglio di bilancio. Dei suoi 3 componenti, due vengono indicati (direttamente o indirettamente) dal Presidente della Repubblica, che dal 2010 è sempre stato espressione di Fidesz, e uno dal Parlamento. Questo inedito istituzionale dispone del potere di veto su qualsiasi legge finanziaria voluta dal Parlamento.

Sostanzialmente inamovibili per via del lunghissimo incarico, i tre consiglieri con il loro parere negativo determinano l’automatico scioglimento dell’unica camera. In caso di sconfitta elettorale della destra, il trio di saggi partigiani di Orbán saprebbe come rimediare all’affronto.

Il senso della microfabbrica della de-democratizzazione illiberale lo coglie Attila Antal (The Rise of Hungarian Populism. State Autocracy and the Orbán Regime, Emerald Publishing, 2019): usando anche categorie gramsciane, il volume classifica il regime ungherese come “populista autocratico”, con il ruolo dominante di Orbán quale “oligarca politico ed economico”.

Entro la zona grigia che lo colloca tra democrazia liberale e dittatura, affiora un sistema politico ibrido nel quale “dopo la costituzionalizzazione del regime, c’è stata una fase ancora più distruttiva di post-costituzionalizzazione”.

Attraverso le reiterate correzioni della Carta, le disposizioni transitorie, le dosi di populismo penale (la vita negli spazi pubblici è un reato, e così i senzatetto diventano criminali), i riti di una “giuristocrazia” al servizio del potere e delle sue incessanti richieste di governance eccezionale, “il sistema è entrato nella sua fase di dittatura costituzionale”. Rincorrendo i miti della patria sovrana – precisa Antal – “le strutture populiste autoritarie del regime di Orbán possono essere considerate come una sorta di rinascita della politica schmittiana nel dopoguerra”.

Per comprendere le ragioni della fascinazione esercitata da Orbán su Meloni, bisogna ricostruire la filosofia che alimenta il vento autocratico in Oriente. Lo fa con acutezza il libro di András Körösényi (The Orbán Regime: Plebiscitary Leader Democracy in the Making, Routledge, 2020): integrando alcune suggestioni di Tilo Schabert, uno dei più sofisticati analisti dei poteri monocratici e dei partiti personali entro sistemi politici strutturati, egli scorge nella esperienza di Budapest una torsione autoritaria per mezzo della quale le elezioni si configurano come l’autorizzazione data al leader di operare in qualità di capo che, nella miscela di carisma e influenza patrimoniale, è sciolto da vincoli legali e procedurali.

Se il trasporto verso Orbán è nelle corde di chi, con un partito personale-familiare controlla il governo e distribuisce le prebende, meno decifrabile è il ridimensionamento, che il Fatto suggerisce, delle eclatanti restrizioni dello Stato di diritto che si palesano con le immagini di una donna in catene.

A meno che, dopo la recente enfasi vagamente ungherese su “Patria e politica” e le ambiguità su Trump, il giornale di Travaglio non intenda bloccare l’evoluzione del M5s come partner indispensabile al Pd per sedare le prove di fascismo democratico che scuotono la vecchia Europa.

7 Febbraio 2024

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