La sentenza della Cassazione
Perché il saluto romano non è un reato da carcere, la Cassazione ribadisce la libertà di opinione della Costituzione
La Suprema corte riafferma la matrice liberale della nostra Carta e della democrazia, che a differenza del regime fascista consente libertà di opinione
Editoriali - di Salvatore Curreri
Nessuna sorpresa. Come avevo qui previsto, la Cassazione – chiamata a sezioni unite per decidere in via definitiva sulla questione interpretativa – ha stabilito che il cosiddetto saluto romano è reato di pericolo concreto e non astratto.
Il che significa, tanto per essere chiari, che esso non va perseguito in sé e per sé, sempre e comunque, ma solo quando, in base al luogo e al tempo in cui viene compiuto, sia considerato idoneo alla riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione finale della Costituzione (art. 5 legge Scelba del 1952) oppure di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che perseguono l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 2 legge Mancino del 1993).
Si tratta, dunque, di due ipotesi di reato distinte, che possono concorrere tra di loro (per cui si può essere accusati e condannati per entrambe), ma accomunate dal fatto che debba trattarsi di comportamenti, in base alle concrete circostanze del caso, effettivamente idonei allo scopo perseguito, a dimostrazione di come ogni ipotesi di reato prevista per legge debba poi essere interpretata e applicata in base al contesto (da qui il rinvio al giudice di merito).
Nessuna sorpresa perché la sentenza della Cassazione s’inserisce in un orientamento giurisprudenziale ampiamente consolidato, addirittura risalente alle primissime sentenze della Corte costituzionale proprio sulla legge Scelba, quando chiarì che “l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista” (sentenza n. 1/1957).
Deve trattarsi, dunque, di manifestazioni che, per il momento e l’ambiente in cui vengono compiute, sono tali da poter essere considerate idonee “a provocare adesioni e consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste” (sentenza n. 74/1958).
Pertanto, non è vietata l’apologia in sé e per sé, quale professione di idee fasciste oppure la loro mera commemorazione, ma la loro esaltazione solo se in grado di tradursi in “istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla detta riorganizzazione e a tal fine idoneo ed efficiente” (C. cost. 1/1957), “con gli stessi metodi e gli stessi scopi del fascismo”.
Tale giurisprudenza ha avuto modo di esprimersi anche sui reati di opinione, eredità del codice fascista e oggi per lo più dichiarati incostituzionali in assenza di quello che la Corte suprema Usa ha definito “clear and present danger”, cioè di un “pericolo chiaro ed imminente” per l’ordine pubblico inteso in senso materiale.
Una giurisprudenza, dunque, che si radica profondamente nella matrice certo antifascista, ma proprio per questo anche liberale e democratica della nostra Costituzione per la quale le idee, finché rimangono tali e non incitano all’azione, si combattono con le idee, e non con il carcere.
Chi impugna la Costituzione come una clava da brandire, talora con una certa ossessione, sempre e comunque contro i nemici della democrazia dimostra di non aver ancora pienamente inteso il suo disegno inclusivo, rivelatosi storicamente alla lunga vincente (si pensi, ad esempio, al fatto che sempre la XII disposizione finale ha interdetto dal diritto di voto attivo e passivo i capi responsabili del regime fascista non per sempre ma per appena cinque anni).
La nostra non è una democrazia protetta, che vieta l’esercizio dei diritti fondamentali contro i principi e valori costituzionali. Ma nemmeno è una democrazia imbelle, che riconosce ai suoi nemici i mezzi per poterla impunemente distruggere, permettendo loro di esercitare quelle libertà che essi pretendono in nome dei nostri principi per negarle in nome dei loro. Come disse Popper, la tolleranza illimitata verso gli intolleranti alla fine porta alla distruzione dei tolleranti e alla scomparsa della tolleranza.
Per questo il punto di equilibrio individuato dalla nostra Costituzione sta nel modo in cui i diritti vengono esercitati, non nella loro finalità. Se la si legge attentamente, ci si può rendere conto di come sia molto più liberale ed aperta di come la si intenda e la si pratichi.
Così: le riunioni sono vietate non per quel che si discute ma perché non ci si riunisce in “modo pacifico e senz’armi”; le associazioni sono vietate non per i fini perseguiti, tranne che lo siano già al singolo dalla legge penale, ma se agiscono in modo segreto o hanno una organizzazione di carattere militare; la libertà d’espressione è limitata solo se vi è il reale e concreto pericolo che le parole si trasformino in “pietre”, cioè in comportamenti violenti; i partiti devono agire non per un fine ma con “metodo democratico” (per questo non sono stati mai messi fuori legge il partito monarchico o la Lega Nord quando mirava all’indipendenza della Padania); non vi sono limiti ideologico-politici alla libertà di organizzazione sindacale; né per motivi politici si può perdere il diritto d’elettorato attivo o passivo. Infine, il dovere di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione non impone un fine all’esercizio dei diritti fondamentali.
Non va mai abbassato il livello di attenzione verso gli attuali rigurgiti fascisti, benché limitati a frange assolutamente minoritarie e marginali della nostra società. Ed anzi va evitato che, come scriveva Ovidio, “la cura venga somministrata tardi, quando i mali, per eccessivi indugi, hanno acquistato vigore”.
Ma un conto è la repressione penale dello squadrismo fascista, come pur accaduto ed anzi non ancora adeguatamente sanzionato, altro è la persecuzione di per sé dell’ideologia fascista anche quando priva di carica istigatrice.
La nostra democrazia ha già dimostrato di essere in grado di sconfiggere i suoi nemici perché si è rivelata rispetto a loro eticamente superiore, utilizzando una mano per ricorrere a tutti gli strumenti a sua disposizione ma tenendo l’altra “legata dietro la schiena”, senza cioè mai tradire sé stessa e i valori di libertà e legalità su sui si fonda.