Perfect Days nelle sale
“In un mondo di aspiranti vip vi racconto i signor nessuno”: parla Wim Wenders, regista di ‘Perfect Days’
Ambientato in Giappone, il nuovo film del cineasta esplora la routine e la serenità di un uomo dal lavoro umile e dalle nobili inclinazioni. “Troppa frenesia, dobbiamo riscoprire la ripetitività: è una cura per l’anima”
Cinema - di Chiara Nicoletti
Ad aprire il 2024 cinematografico ed augurarci filmicamente buon anno, un maestro del cinema europeo, Wim Wenders che oggi arriva nelle sale con il suo ultimo lavoro, Perfect Days, film ambientato in Giappone e per questo al momento il candidato giapponese nella shortlist che aspira ad entrare nella cinquina per gli Oscar 2024.
Dopo aver incantato l’ultimo festival di Cannes lo scorso maggio, non solo con questo titolo ma con Anselm, pellicola nella quale il regista de Il Cielo sopra Berlino raccontava tridimensionalmente la vita e le opere dell’artista Anselm Kiefer, Wenders, che ha fatto dell’umiltà e la riflessione sull’umanità una cifra stilistica, minimizza l’ipotesi Oscar dicendo di essere stato scelto perché “i giapponesi amano così tanto il loro attore, Kōji Yakusho, un eroe per loro, che lui è solo un regista spalla”.
Con Yakusho a fare da volto, corpo, a incarnare rispetto e gentilezza, Perfect Days narra di Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, dalla vita semplice, scandita da una routine perfetta e dall’amore per la musica, i libri, le piante, la fotografia e tutte le piccole cose a cui si può dedicare un sorriso.
Racconta la ripetitività di qualcuno di cui scopriamo un po’ di passato ma che ha, inevitabilmente trovato una quadra nel modo in cui vive i piccoli gesti di ogni giorno. Incontriamo Wenders virtualmente, in una piccola e intima chiacchierata insieme ad altri colleghi della stampa, per farci anticipare ed introdurre il cuore di Perfect Days. Una riflessione, quella del cineasta filosofo, sui tempi che stiamo vivendo, socialmente, e cinematograficamente.
Come ha lavorato con Kōji Yakusho, visto che non parla inglese?
Conoscevo già il lavoro di Yakusho molto bene. L’ho visto per la prima volta in Vuoi ballare? – Shall We Dance? (Sharu wi Dansu?) e poi in Babel e man mano ho visto tutti i suoi film ed ho pensato fosse uno dei più grandi attori del pianeta. Quando ha accettato di interpretare il ruolo di questo dipendente pubblico, ho scritto finalmente il film con lui in mente. Non potevamo parlarci direttamente perché avevamo sempre bisogno di un interprete, ma quando giri non sempre hai bisogno di parlare: ci capivamo spesso a gesti o con gli sguardi, guardandoci negli occhi. Dopo un po’ ci siamo così abituati a capirci che abbiamo imparato a parlare senza bisogno di parole ed a un certo punto è proprio diventato il personaggio, ho anche smesso di chiamarlo Kōji or Mr. Yakusho, l’ho chiamato direttamente Hirayama perché ormai ogni giorno sul set era come se stessimo facendo un documentario su un personaggio di finzione. Il film poi mostra che il personaggio deve aver scelto, ad un certo punto della sua vita, di vivere una vita più semplice e sì, anche di pulire gabinetti come lavoro. E, come si vede nel film, è piuttosto felice. Ho lasciato che il mio pubblico però si relazionasse con questa presa di coscienza alla sua maniera.
Hirayama è considerato un po’ come un Signor Nessuno per la società, proprio per il lavoro che svolge? E che tipo di riflessione ha fatto sulla nostra concezione della routine?
Sì, io penso che lui viva come un Signor Nessuno. Vive una vita modesta. Ma ti rendi anche conto che lui nota ogni singolo individuo che passa nella sua vita. Quando il bancario entra nella toilette dove lui lavora, lui esce silenziosamente e lascia che la utilizzi. Ed il bancario fa finta di non averlo proprio visto. È un invisibile per molte delle persone che guardano a lui solo come una persona di servizio ma lui invece osserva e “vede” tutti e si accorge anche del senzatetto che vive vicino alla toilette dove lavora, lo saluta sempre e gli porta rispetto perché per lui le persone sono tutte uguali. Dunque, anche se per molti lui è un Signor Nessuno, questo non sembra dispiacergli perché a questa mancanza di rispetto di chi lo ignora, lui risponde ogni giorno con il rispetto che porta a tutti gli altri. Sa bene chi è e ne è felice. E poi è un lavoratore. Ha la sua routine. E il film è prettamente su un uomo che ha una sua routine molto accurata che lo spettatore pian piano impara a conoscere. La sua routine non lo annoia anzi, gli regala un ordine che a sua volta gli dona libertà, la capacità di vivere nel qui e ora, di vedere tante cose, di fare cambiamenti. Ci rendiamo conto così che la routine non è necessariamente una cosa negativa nella nostra vita mentre l’abbiamo sempre considerata tale nella nostra cultura. Per Hirayama è un rituale, è come se ogni giorno facesse quella cosa per la prima volta ed ogni volta cerca di farla nella maniera migliore possibile. In quest’ottica, penso che sarebbe bello se la nostra vita avesse un po’ più di ripetitività. Quando lo guardavo mi sono sentito come se la routine fosse qualcosa che nella mia vita mancava e di cui avrei avuto bisogno. Certo, io ho dei rituali ma solo quando lavoro ad un film, fuori da questo, la mia vita è abbastanza approssimativa. Un po’ più di ripetitività mi servirebbe a guadagnare stabilità e libertà.
Che ci può dire sul senso di bene comune che sembra guidare il suo protagonista?
Il bene comune è associato all’idea per cui la singola persona privata è parte della società, che insieme siamo padroni delle strade, dei parchi e che curiamo insieme le istituzioni da cui traiamo tutti gli stessi vantaggi. Ci siamo accorti tutti che dalla pandemia al dopo pandemia, l’idea di bene comune ha sofferto molto. Quando siamo tornati a popolare le strade e vivere la nostra vita in comunità, l’idea che ognuno dovesse curarsi solo e soltanto di se stesso, al di là della collettività, ha acquisito molta più forza. Quando sono tornato a Tokyo, nel maggio scorso, ho invece notato che lì, le persone, che sono state quelle che hanno vissuto il più lungo lockdown della storia, quando sono finalmente potute uscire, hanno trattato gli spazi comuni con ancora più rispetto ed è bellissimo vedere quanto ci sia la percezione che tutto quello che c’è là fuori appartiene a tutti noi e tutti se ne prendono cura. Qui a Berlino, invece, alla fine della pandemia, per esempio, ci siamo abituati ormai al fatto che gli scooter sono parcheggiati ovunque, sui marciapiedi, nei parchi, la gente semplicemente butta le proprie cose o i propri rifiuti dove vuole, senza curarsene. Ai beni comuni nessuno fa più attenzione. Per questo ho pensato che il concetto di bene comune fosse un argomento interessante da trattare dopo la pandemia e ho colto l’occasione per farlo con un film in Giappone perché lì aveva più senso.
Crede ci sia una connessione tra il fatto che questo è un film più classico in termini di stile e linguaggio ed è anche già uno dei suoi film più amati?
Penso che il linguaggio cinematografico contemporaneo per molte persone sia diventato troppo rumoroso, troppo complesso e troppo veloce. Sento che c’è una certa nostalgia per un linguaggio cinematografico che sia più simile alla narrazione, non troppo travolgente o violento, con una velocità che ti permetta di vedere e capire. Sento che dopo la pandemia abbiamo iniziato a vivere ancora più freneticamente e il cinema è invece un bel posto per riconsiderare il modo in cui vorremmo vivere. E penso che un po’ più di calma e un po’ più di serenità aiuterebbero tutti noi. Anche se il protagonista del mio film è fittizio e forse addirittura utopico, ci aiuta a riconsiderare come potremmo voler vivere e il cinema è sempre il luogo giusto per questo. Non penso che si debba chiamarla nostalgia. Penso che ci sia semplicemente bisogno di rallentare un po’. E forse è proprio questo che rappresenta Perfect Days.