Parola all'attore e regista

Palazzina Laf, il film di Michele Riondino sull’Ilva e la classe operaia che non è andata in Paradiso

Le parole dell'attore e regista Michele Riondino: “Non solo il primo caso di mobbing in Italia, ma anche una vicenda esemplare che racconta identità e valori perduti, schiacciati dalla legge del padrone”

Cinema - di Chiara Nicoletti

30 Novembre 2023 alle 11:42 - Ultimo agg. 1 Dicembre 2023 alle 11:42

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L’attore Michele Riondino
L’attore Michele Riondino

“Tutto quello che vedete nel film è successo davvero. Abbiamo voluto fare un film politico, ideologico ed anche di parte”. Sono queste le parole con cui Michele Riondino ha presentato il suo primo film da regista, Palazzina LAF che, dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma, lo scorso ottobre, esce finalmente al cinema dal 30 novembre, con Bim distribuzione.

Per chi non ne avesse sentito mai parlare, quello della Palazzina Laf fu il primo caso di mobbing in Italia, prima di quegli avvenimenti, il termine nel nostro paese non era mai stato utilizzato né ben definito. Riondino racconta la storia di uno dei più famigerati “reparti lager” del sistema industriale italiano, un caso giudiziario che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro, 79 lavoratori altamente qualificati costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito in tribunale “una specie di manicomio”.

Con una sceneggiatura scritta a quattro mani con Maurizio Braucci, Riondino narra fatti che sono frutto di interviste fatte a ex lavoratori Ilva ed ex confinati e ricorda che in quell’acciaieria ci hanno lavorato sia suo padre che suo fratello: “Ho avuto la possibilità di parlare di questa situazione da diversi punti di vista, ho organizzato concerti, l’ho raccontato in interviste, dibattiti, conferenze. Ci ho messo tutto questo tempo per dire la mia verità attraverso il mio mezzo e la mia grammatica e l’ho voluto fare attraverso verità oggettive, raccontate da diretti testimoni della storia e dalle carte processuali”.

In Palazzina Laf, Michele Riondino interpreta Caterino, uomo semplice e rude che si fa attrarre dall’idea di essere pagato per non lavorare e accetta prima di fare la spia per il presidente della compagnia, un perfetto subdolo Elio Germano e poi finisce per essere spedito in Palazzina, dove presto si rende conto che quel confinamento non è per nulla una vacanza. Abbiamo incontrato il regista e attore durante la Festa del Cinema in due momenti per approfondire questa sua opera prima che, per citarlo, “vuole essere una sorta di affresco sociale, non vuole raccontare quello che succede oggi a Taranto, ma quello che oggi viviamo è sicuramente frutto del disinteresse di chi nel 1995 ha sacrificato un’intera città sull’altare del proprio capitale”.

A motivare il passaggio di un attore dietro la macchina da presa, spesso si parla di necessità, è stato così per lei?
Sì, è stato ed è un film necessario. È l’unico film che avrei potuto fare perché nasce da una lavorazione molto lunga. Sette anni per poterlo fare e per poter raccogliere le informazioni, trovare e ascoltare le storie dei diretti interessati, di chi è stato lì dentro, di chi c’è stato intorno. Il mio bisogno, la mia necessità, era quella di sentire questa storia da diversi punti di vista perché io l’ho sempre conosciuta. Nel 1997 andavo via da Taranto e la storia l’ho conosciuta in quegli anni, mentre succedeva e il racconto che mi veniva fatto era quello di lavoratori che erano lì perché meritavano di essere puniti, perché non gli andava di lavorare. Erano lì senza far nulla, guadagnavano e si lamentavano, questo si diceva. La cosa incredibile era che questi commenti mi venivano fatti anche da mio padre, mio zio, un mio amico e molti degli operai che conoscevo, lavoratori veri che si consumano le mani, che leggono questa esperienza in maniera così crudele. Poi, invece, andando a sentire i ricordi di chi c’è stato davvero, mi accorgo della necessità di raccontare questa storia. Non si ha più la percezione di far parte di qualcosa di importante, la classe operaia è morta, non è andata in paradiso, ha perso l’identità, ha perso la coscienza di se stessa, l’amor proprio, ha perso tutto e quindi preferisce schierarsi dalla parte del padrone, dalla parte del più forte, nonostante sia un carnefice, come fa il mio personaggio, Caterino, nel film, piuttosto che gridare al mondo quanto si è vittime di un sistema. Questo è il lavoro oggi, non è più difendere se stessi e il sistema per il quale si sta lavorando e ci si consuma le mani, ma difendere se stessi dal collega, da chi può minacciare il mio posto, viviamo sempre sotto assedio. Per questo per me è importante parlare di lavoro oggi, perché il lavoro e il lavoratore oggi sono sotto assedio. Noi conosciamo poco di quello che succede all’interno delle fabbriche, conosciamo giusto quello che ci raccontano quando gli operai vengono fuori e si lamentano di qualcosa. All’interno dell’Ilva, in quegli anni lì, c’era una strategia della tensione molto specifica e molto attenta.

Caterino è l’unico personaggio di finzione nel film mentre gli altri sono ispirati a persone realmente esistenti ed esistite. Perché questa scelta?
Per me la figura di Caterino rappresenta la mia critica feroce verso la classe operaia tarantina perché oggi, tutti quei cassintegrati che continuano a pensare che se dovesse chiudere l’azienda morirebbero di fame (come se nel 2023 si potesse morire di fame in Italia), continuano a difendere un’azienda che non ha futuro e che non difende i lavoratori. Molti tarantini vivono ancora all’ombra di questa utopia, pensano cioè di rappresentare una classe che un tempo è stata nobile, ma che oggi ha perso completamente cognizione e conoscenza di se stessa.

A contorno della storia dei “deportati” in Palazzina, nel film inserisce immagini che apparentemente non sono legate al racconto portante. Tra gli esempi: una pecora che si accascia a terra, la malattia che si insinua ma che viene ignorata. Ci spiega queste brevi digressioni?
Raccontando una storia ambientata nel ‘97, ho dovuto fare una scelta. Per me era importante narrare la situazione di quel periodo ma senza dimenticare quello che siamo oggi. Quello che è successo in quegli anni ha determinato l’oggi e quindi mi sono divertito a disseminare, durante tutto il film, piccoli elementi che invece riportano l’attenzione dello spettatore, quello più attento evidentemente, a quello che siamo oggi. La pecora è un chiaro riferimento a quello che è successo pochi anni fa in una azienda agricola, la stessa dove Caterino, il mio personaggio, vive e dove abbiamo girato il film, che si è vista abbattere oltre 600 capi di bestiame per il problema della diossina. Nel film, il procuratore che arriva, il personaggio interpretato da Anna Ferruzzo, nella realtà dei fatti era un uomo ma per me doveva essere una donna per fare un chiaro riferimento alla giudice delle indagini preliminari Patrizia Todisco che il 26 luglio 2012 emanò l’ordinanza di sequestro degli impianti Ilva considerati pericolosi per la salute umana. Poi, in una scena, gli operai aspettano l’autobus sotto una fermata dove c’è scritto “Ilva is a killer” che è un motto che noi usiamo oggi. Tutto il film è pieno di questi piccoli indizi che portano al nostro presente.

30 Novembre 2023

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