Parla l'attore

Antonio Albanese racconta ‘Cento Domeniche’: “Che miseria l’Italia avida che frega i lavoratori”

L’attore e regista rimette al centro la classe operaia in un film che ricorda il cinema di Loach. “Ricordo i tempi in cui si usciva dalla fabbrica con l’Unità sotto braccio. Torniamo a parlare degli ultimi e a dare loro il supporto che meritano: sono spariti dal dibattito”

Cinema - di Chiara Nicoletti - 26 Ottobre 2023

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Antonio Albanese racconta ‘Cento Domeniche’: “Che miseria l’Italia avida che frega i lavoratori”

“È un racconto del mondo operaio, un pianeta che dobbiamo cominciare a notare e guardare, ci dobbiamo aiutare”. Commenta così Antonio Albanese la necessità sua e del collega attore Michele Riondino divenuto regista con Palazzina Laf, di fare un film sul mondo del lavoro e denunciarne le ingiustizie, i tradimenti. Alla 18esima Festa del Cinema di Roma e dal 23 novembre al cinema, Cento Domeniche, quarto lungometraggio e quinta regia dell’eclettico attore Albanese, narra di Antonio, ex operaio di un cantiere nautico, la cui vita tranquilla da giocatore di bocce, figlio devoto di madre novantenne e padre orgoglioso di un’unica e amatissima figlia, viene sconvolta da un crac bancario che gli impedisce di realizzare il sogno più semplice di tutti: regalare alla figlia il ricevimento di nozze che voleva da sempre.

Le cento domeniche sono quelle in cui si narra che un altro operaio abbia costruito pazientemente la propria casa con i propri risparmi e l’impegno costante di una vita tranquilla, faticosa ma onesta. Da ex operaio metalmeccanico, Antonio Albanese racconta una storia ambientata in un mondo di cui ha fatto orgogliosamente parte, nei luoghi che gli hanno dato i natali per mostrarne un’amara universalità e per mettere in luce quelle che lui stesso ha definito “storie di ordinaria avidità, che hanno travolto le esistenze di centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori su e giù per la penisola”.

“Quello che Antonio subisce è un tradimento. In quella provincia operosa dove è cresciuto, della banca del paese ci si è sempre fidati. Per tutti la banca è sempre stata il confessionale. Per questo, alla scoperta del raggiro, la prima reazione di Antonio è di incredulità. Poi subentra lo smarrimento e l’angoscia di chi è stato tradito proprio da chi si fidava, la vergogna di non aver intuito quanto stava accadendo”. Il sentimento portante del suo protagonista, che interpreta, è proprio la vergogna che culmina in quella che potremmo definire, facilmente, disperazione. Con pochi altri giornalisti, a poche ore dai primi applausi al film, alla proiezione per la stampa, incontriamo Antonio Albanese che, a cuore aperto, ci confessa genesi, svolgimento e speranze del suo Cento Domeniche.

Un film il cui protagonista poteva essere lei, visto il suo passato di operaio.
Vengo da quel mondo, ho fatto il metalmeccanico per sei anni e non sono pochi, lo dico con orgoglio. Poi ho scoperto il mondo del teatro che mi ha colpito. Ho lasciato il certo per l’incerto e con l’arrivo a Milano ho avuto la fortuna di entrare in accademia. Poi la passione e anche il bisogno mi hanno avvicinato alla comicità, una forma d’arte tra le più elevate in assoluto e ho cominciato così. Ma non ho mai dimenticato il mio mondo, il mio paesello (Olginate, ndr) che continuo a frequentare e dove ho cari amici. Con Piero Guerrera, mio co-sceneggiatore che sa quanto amo quel mondo, ci siamo avvicinati a queste storie. E sì, potevo essere io il protagonista, poiché per età, per crisi del lavoro, sarei potuto andare in prepensionamento e trovarmi anche io nella situazione di Antonio nel film. Non perché io sia ingenuo ma perché mi fido degli altri. Volevo rappresentare questa tragedia e un tema poco rappresentato soprattutto nel mondo operaio, che ci sostiene da sempre. Da spettatore mi sono detto che desideravo vedere questa storia. Con grandi attori, tecnici stupendi e grande impegno, ci siamo convinti di poter raccontare una verità. Questo è un film necessario perché racconta un’ingiustizia che non va dimenticata.

Oltre che una necessità, da artista, attore e regista, sente una responsabilità nel suo lavoro?
40 anni fa circa, l’Unità sosteneva quel mondo operaio che io tratto nel film e loro si sentivano meno soli. Gli operai uscivano dalle fabbriche con l’Unità sotto il braccio. Poi non ci siete stati più e adesso anche l’Unità ancora se ne occupa poco. Ma, io sento questa responsabilità da regista, le cose cambieranno e grazie a voi giornalisti, al vostro appoggio e alla vostra considerazione, so che gli operai potranno abbandonare questa solitudine perché sosterremo nuovamente la realtà operaia che raccontiamo nel film e insieme daremo visibilità alla miriade di persone che sostengono questo paese.

Il suo protagonista vive nel film un crescendo di emozioni, pacate seppur potenti: incredulità, angoscia, vergogna. Poi, però, alla fine, Antonio non ce la fa più.
Io reputo Antonio nel film una persona sana, intelligente e profondamente onesta. A un certo punto però ringrazia, si scusa con la figlia, il suo grande amore, e non riesce più a trattenere questa vergogna, questo tradimento. Come lui stesso dice: è arrivato nel confessionale, in quel luogo che era la banca, dove lui poteva fidarsi e invece si ritrova tradito completamente. Io ho raccontato una persona che condivide cose semplici la cui serenità all’improvviso viene rotta e scompare. In persone così tranquille, questo si può trasformare nell’opposto assoluto. Io ho raccontato la verità fino in fondo, non volevo accompagnare il pubblico verso casa con le speranze, le speranze sono altre.

Come si descriverebbe da regista? Nel suo film si intravedono riferimenti al cinema del lavoro e di denuncia di Mike Leigh, Ken Loach e anche Cristian Mungiu.
Io mi chiamo Antonio Albanese, sono nato a Lecco e vivo a Milano. Sono uno spettatore, amo il cinema e ci vado spessissimo grazie alle poche sale che sono rimaste. Ha citato tre divinità. Per me Segreti e Bugie di Mike Leigh rimane uno dei miei 10 film preferiti in assoluto. Conosco benissimo anche Ken Loach però i loro sono tempi e linguaggi diversi e io forse, a differenza loro, quel mondo l’ho vissuto. Arrivo da una provincia industriale che però conosco e volevo rappresentare a modo mio, non c’è la Thatcher, non ci sono miniere di carbone, disoccupazioni. L’unico tatuaggio che ho è un’incisione di un truciolatore che ho avuto a 22 anni. È un tema ben preciso quello di Cento Domeniche, le ingiustizie bancarie che hanno colpito soprattutto l’Italia. Ad ogni modo, se trovate nel mio cinema riferimenti così nobili, io me li abbraccio.

L’Antonio Albanese attore come si distacca dai personaggi, anche molto comici, recitati in passato?
È sempre una questione di lavoro, devi lavorare, non puoi improvvisare per raccontare una cosa con uno stile diverso. Qualunquemente, anche se ufficialmente un film comico, per me è una delle cose più drammatiche che abbia mai fatto. I topi, a mio avviso tra le mie opere più riuscite, è un modo molto efficace di rappresentare queste merde umane, questi mafiosi schifosi. È uno stile diverso. Io mi annoio facilmente e mi piace sorprendere e farmi sorprendere. Abbiamo lavorato anni a Cento Domeniche, non è che sia arrivato così. Anche Come un gatto in tangenziale è un’altra cosa non tanto facile, mantenere quella sorpresa continua, scena per scena e capire come interagire con chi ci sta vicino. Ora mi piacerebbe interpretare un soldato, perché non ne ho mai fatto uno.

26 Ottobre 2023

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