La guerra in Medioriente
Quali sono le colpe e quali i diritti di Israele
C’è una differenza enorme tra la contestazione delle politiche forsennate di Israele e la contestazione a Israele di avere qualsiasi politica rivolta puramente e semplicemente a difendere la propria esistenza e la vita dei propri cittadini
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Vogliamo davvero che cessino le stragi di civili? E allora vediamo che esse non siano imputate, come invece si sta facendo da parte di molti, a deliberati propositi di genocidio.
Vogliamo davvero che siano accertate e sanzionate le responsabilità dell’esercito israeliano per questo o quell’errore, questo o quell’eccesso, perfino questo o quel crimine commesso in occasione della risposta al pogrom del 7 ottobre?
E allora vediamo che la critica, l’accusa, la giusta richiesta di giustizia non si presti a nascondere la pretesa sottostante, e cioè che Israele dovesse assistere senza far nulla, perché dopotutto lo meritava, al furioso massacro dei propri cittadini e alla festa che in mezzo mondo celebrava quello scempio.
Vogliamo davvero opporci al massacro dei bambini, e reclamare che abbia fine? E allora vediamo di denunciare le responsabilità di una forza armata che accetta di farne macello, ma senza dimenticare la responsabilità di quelli che costruiscono rampe di missili nei condomini e mettono insieme arsenali di armi nelle scuole, negli ospedali, nelle moschee.
Ciò che non si capisce è che sarà possibile costringere Israele all’angolo delle proprie responsabilità se, e solo se, sarà riconosciuto il diritto di Israele di difendere la propria esistenza e la sicurezza dei propri cittadini.
E questo non si fa, se sulla scena dei massacri del 7 ottobre qualche sconsiderato dice che certe cose non vengono dal nulla. Questo non si fa, se la difesa in armi della vita degli israeliani è passata per la politica suprematista che vuole sterminare i palestinesi e imporre l’impronta ebraica su quelle terre.
Questo non si fa, se si straparla di “apartheid” e “pulizia etica” appellandosi alle deliberazioni sbilenche delle organizzazioni internazionali che appaltano la cura dei diritti umani agli assassini delle ragazze con i capelli fuori posto.
C’è una differenza enorme tra la contestazione delle politiche forsennate di Israele, contestate innanzitutto in Israele, e la contestazione a Israele di avere qualsiasi politica, con qualsiasi governo, rivolta puramente e semplicemente a difendere la propria esistenza e la vita dei propri cittadini, tra i quali un buon numero di arabi che mena una vita incomparabilmente migliore, per diritti, per stipendi, per libertà, rispetto a quella di cui i loro omologhi godono nelle impunite e mai contestate dittature mediorientali.
C’è una differenza enorme tra la denuncia di un intervento militare che fa troppe vittime civili e la pretesa secondo cui Israele avrebbe dovuto rimanere semplicemente inerte, perché i suoi milleduecento massacrati non valgono nulla, perché le centinaia di ostaggi israeliani non valgono nulla, e anzi questo era il prezzo magari tragico ma dopotutto inevitabile che Israele doveva pagare per il male che commette già solo per il fatto di esistere.
Non basta. Ciò che colpevolmente non si calcola è che, vedendosi rinfacciati delitti come il “genocidio” e la “pulizia etnica”, Israele, specie nelle sue componenti oltranziste, non fa altro che implicarsi nella propria solitudine, non fa altro che rinchiudersi nell’inevitabilità della guerra.
Ciò che colpevolmente non si calcola è che la reazione spropositata, e magari anche criminale, di chi ha subito una violenza mostruosa può essere onestamente denunciata se si riconosce che egli ha subito quella violenza mostruosa, che ha diritto di non subirla, che ha diritto di difendersene e che ha diritto di fare giustizia su chi l’ha perpetrata.
Altrimenti manca un pezzo. È il pezzo che manca per poter chiedere a Israele di farla finita con le stragi. È il pezzo che continua a mancare, se si manca di riconoscere a Israele il diritto di farla finita con chi vuol farla finita con Israele.
È la differenza tra il diritto dei palestinesi di vivere con un vicino che non fa sopraffazione e violenza, da un lato, e il loro diritto di vivere senza quel vicino, dopo che quel vicino è stato è stato annientato, dall’altro lato. Uno è un diritto: l’altro no. Uno è una causa giusta. L’altro è la causa della guerra.