Parola all'economista

Intervista a Emiliano Brancaccio: “Non bisogna parlare della lotta di classe, ma farla”

L’economista interviene nel dibattito lanciato sull’Unità: “L’hanno chiamata globalizzazione, innovazione, meritocratizzazione. Ma in sostanza è stata una lunga, feroce ed efficacissima lotta della classe capitalista egemone contro le lavoratrici e i lavoratori, per cancellare le conquiste sociali del secolo breve»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 13 Dicembre 2023

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L’economista Emiliano Brancaccio
L’economista Emiliano Brancaccio

È possibile una politica di sinistra che faccia di nuovo perno sugli interessi degli sfruttati? Si può rimodellare la politica economica sulle istanze di lotta della classe lavoratrice? Dopo l’intervento iniziale di Paolo Franchi, che ha avviato un confronto di idee proseguito con Michele Prospero, l’Unità interroga Emiliano Brancaccio, economista e modernizzatore del marxismo, che sulla prospettiva di una “rivoluzione” della politica economica ha spesso dibattuto con i massimi responsabili di governo del paese.

“Scontro sul salario: la lotta di classe è il motore della politica”. Questo è il titolo che l’Unità ha dato a un recente articolo di Paolo Franchi. Professor Brancaccio, è così?
È una parafrasi della tesi di Marx ed Engels: la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classe. Come tutti i grandi scienziati anche quei due commisero errori. Ma su questo punto epistemologico decisivo avevano buone ragioni.

Eppure non si parla più di lotta di classe…
Meno se ne parla, meglio la si pratica. I dati indicano che nell’occidente capitalistico, durante l’ultimo mezzo secolo, le tutele del lavoro, le ore di sciopero e quindi anche la fetta di Pil che va ai salari sono precipitate. L’hanno chiamata in tanti modi: globalizzazione, innovazione, meritocratizzazione. La sostanza è che è stata una lunga, feroce ed efficacissima lotta della classe capitalista egemone contro le lavoratrici e i lavoratori, per cancellare le conquiste sociali del secolo breve.

In questa feroce lotta contro il lavoro vediamo come è messa l’Italia. Franchi annota che la vicenda del salario minimo sembra avere riportato nel dibattito la nozione di sfruttati e sfruttatori. Il governo sta con gli sfruttatori. Ma il Pd?
Il governo Meloni ha messo sotto i tacchi le vecchie fantasie interclassiste del populismo di destra e ha assunto il ruolo di fedele servitore della classe egemone, talvolta in modi più smaccati di quanto si potesse immaginare un anno fa. Anche solo per ragioni direi meccaniche, di “fisica della politica”, questo dovrebbe favorire uno spostamento del Pd e del resto dell’opposizione verso l’altro lato della lotta sociale. Ma per adesso quel movimento appare lento, e incerto. Uno dei motivi è che mettersi chiaramente dal lato degli sfruttati entrerebbe in contraddizione con la cultura politica dominante. In fondo, la voglia di interclassismo seduce tutto l’arco del parlamento, inclusa la sinistra. Eppure, a ben vedere, lo spazio di manovra per una politica economica interclassista ormai si è esaurito. Un tempo si diceva che moriremo tutti democristiani. Oggi va detto diversamente: è l’interclassismo Dc che è morto, ma nessuno vuole ammetterlo.

Torna allora la questione della lotta di classe. A tal proposito, rimarca Franchi: “La sinistra se l’è scordata. A partire da quando, al Lingotto, nel 2007, si negò che potesse esistere qualunque contrasto tra ‘padroni’ e lavoratori. Se la sinistra non torna a dar voce agli sfruttati, è spacciata”.
Quello di Veltroni fu uno strappo particolarmente vistoso, una delle sue consuete “americanate”. Ma si potrebbe partire anche da più lontano. Proprio su questo giornale, un editoriale del compianto economista Augusto Graziani del 1990 domandava se l’imminente svolta del Pci verso il nuovo nome dovesse per forza implicare un abbandono dell’analisi di classe della società capitalista. Graziani temeva che una volta sfumato il problema del posizionamento da un lato o dall’altro della linea di divisione tra le classi sociali, il partito avrebbe anche perso le coordinate del rapporto tra politica economica e consenso di massa. Pur tra alti e bassi, alla fine purtroppo è andata proprio così.
Una sinistra che non ha una visione “altra” di politica economica, può essere all’altezza delle sfide del nostro tempo?
In verità, rispetto alla destra berlusconiana e alle sue recenti varianti post-fasciste, il centrosinistra italiano un’idea “altra” di politica economica l’ha pure avuta. Il problema è che era semplicemente una versione “popolarizzata” della linea di Bankitalia: abbattere le rendite della piccola e media borghesia parassitaria, liberalizzare i mercati, favorire la centralizzazione proprietaria, modernizzare il capitalismo italiano. Insomma, mentre Berlusconi era il Gulliver monopolista che ambiva a rappresentare gli interessi del capitalismo lillipuziano dei piccoli proprietari e delle partite IVA, il centrosinistra ha provato a sospingere l’Italia verso logiche un po’ più avanzate, da grande capitalismo europeo. Una posizione anche sensata. Ma sempre racchiusa in uno scontro tra fazioni tutto interno alla classe capitalista.

E quando si è trattato degli interessi della classe lavoratrice?
Sotto quell’aspetto bisogna ammettere che le differenze tra sinistra e destra sono state molto meno accentuate. Basti notare l’indice di protezione del lavoro calcolato dall’OCSE: per un trentennio è andato sempre nella direzione della precarizzazione dei contratti di lavoro, quasi indipendentemente dal colore politico dei governi che si avvicendavano alla guida del paese.

Ma ora? Con una destra che sempre più si fa servente degli sfruttatori, è possibile costruire una politica economica nell’interesse degli sfruttati?
Nel suo vecchio e nobile senso progressivo una soluzione “riformista” esisterebbe, ispirata proprio dai problemi di arretratezza della nostra economia. Consiste nel puntare sempre su una modernizzazione del capitalismo italiano, che però stavolta dovrebbe basarsi su un meccanismo propulsivo diverso dal solito, diciamo pure una diversa leva “di classe”. Mi riferisco alla possibilità di spingere di nuovo verso l’alto le tutele normative e sindacali – dalla rappresentanza, al diritto di sciopero, agli indennizzi per licenziamento ingiustificato – proprio per aumentare il salario e il costo generale del lavoro. Ai tempi del vecchio riformismo si sapeva bene che questa “frusta competitiva”, che agisce dal basso, è il meccanismo più potente per costringere le imprese a riorganizzarsi e a migliorare l’efficienza e la produttività, in modo da lasciare sul mercato solo i capitali più robusti. Insomma, tanti oggi dicono che per aumentare i salari bisogna prima aumentare la produttività, mentre in realtà la logica va ribaltata: solo se i primi crescono allora si crea la spinta che stimola la seconda. Sarebbe questa una “distruzione creatrice” molto più profonda e radicale di quella, talvolta invocata da Draghi, che si basa sul solito abbattimento dei costi. E sarebbe praticabile: siamo tra i fanalini di coda dell’Europa, i margini per tirare su il costo del lavoro sono più ampi di quanto gli imprenditori e le loro veline siano disposti ad ammettere.

Il salario minimo può far parte di questa strategia?
Può essere un piccolo tassello di un cambio di politica economica più generale. A condizione però che l’aumento salariale ricada sui capitalisti e non sul bilancio pubblico. Altrimenti torniamo alle solite illusioni dell’interclassismo e la “frusta” modernizzatrice va a farsi benedire.
Insomma, una “lotta di classe modernizzatrice”.

Qual è l’ostacolo a questa politica?
Uno dei tanti è che questa svolta significherebbe mettersi contro la pletora di piccoli proprietari, professionisti della rendita, imprenditori imbolsiti che vivono di elusioni, prebende e salari da fame. In Italia questi pezzi di vecchia società sono ancora abbastanza organizzati, ci vuol coraggio per fronteggiarli a viso aperto. Soprattutto quando dall’altro lato della lotta di classe regnano frammentazione e astensionismo. In fondo, la famigerata “disintermediazione” della politica ha eroso i corpi intermedi che rappresentavano i lavoratori, molto meno gli altri.

Lei qui evoca una forma di “riformismo” progressivo, però poi discute anche con l’ex capo economista FMI Olivier Blanchard di una “rivoluzione” della politica economica, basata su una concezione inedita della logica di “piano”…
Sì, sembra strano che l’ex capo economista FMI arrivi a discutere con un “eretico” di nuove vie di pianificazione. Ma gli addetti ai lavori non si meravigliano più di tanto. Il motivo è che prodromi di piano sono ormai un po’ ovunque. Basti pensare al modo in cui, dopo la grande recessione del 2008, per oltre un decennio le banche centrali hanno agito da “market makers”, cioè hanno attuato compravendite in massa di titoli per domare la bestia della speculazione, e così hanno praticamente deciso chi far sopravvivere e chi far fallire, al di fuori di qualsiasi logica di mercato. Cenni di pianificazione, che sono destinati a diffondersi man mano che le crisi capitalistiche si accentuano.

Lei è un esperto riconosciuto di “leggi di tendenza” del capitalismo. Esiste dunque una tendenza verso la crisi?
Sì, in un senso non semplicemente economico. Esiste una tendenza documentata verso la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani, che suscita conflitti internazionali tra capitali e al limite crisi diplomatiche e militari. Ci siamo arrivati, purtroppo.

Tempi difficili. Ma allora, per tornare a un vecchio dilemma del movimento operaio, questa è un’epoca di “riforma” o di “rivoluzione”?
Per adesso siamo ancora nel pieno di una spietata reazione capitalista contro il lavoro. Quanto al futuro, i tremendi meccanismi del processo storico sono effettivamente tornati in azione. Gli stravolgimenti che ci attendono lambiscono anche il vecchio dilemma tra “riforma” e “rivoluzione”. È chiaramente superato, ma in un senso un po’ diverso da quel che comunemente si crede. Qualche tempo fa Mario Monti disse che era d’accordo con me su un fatto: una volta caduto il muro di Berlino e svanito il pungolo di una qualsiasi minaccia “rossa”, è diventato anche difficilissimo praticare un riformismo di tipo keynesiano, con la conseguenza che da allora il capitalismo ha potuto davvero dare il peggio di sé. Potremmo interpretare questa sincera ammissione sostenendo che dopo il crollo dell’Unione sovietica i “riformisti” si illudevano di avere campo libero, mentre oggi sappiamo che sono sprofondati sotto terra insieme ai “rivoluzionari”. Benissimo allora tentare di fare risorgere la lotta di classe dal lato del lavoro. Ma per fare davvero questo “miracolo materialista”, forse bisognerebbe anche superare dialetticamente gli antichi dilemmi, e ricodificare tutti i linguaggi.

13 Dicembre 2023

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