Il patto con l'Albania
Il flop dell’operazione Albania: spacca la maggioranza e fa arrabbiare la Chiesa
Il ministro Ciriani fa sapere che l’accordo non richiede un passaggio in Aula, Meloni vuole evitare clamore sui tanti punti deboli dell’intesa. L’obiettivo è incassare consenso per FdI in vista delle europee, l’esclusione di Salvini dalla manovra albanese non è un caso...
Politica - di David Romoli
Il trattato fra Italia e Albania sui richiedenti asilo non passerà dal Parlamento come reclamava l’opposizione. Lo ha annunciato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Ciriani, giustificando la scelta con l’esistenza di due precedenti accordi tra i due Paesi, uno del 1995, l’altro del 2017.
L’aggiuntina che permetterà di rinchiudere in terra albanese 38mila richiedenti asilo ogni anno sarebbe pertanto solo un “accordo rafforzato” che non richiede il passaggio parlamentare. L’opposizione, su richiesta del M5S fatta propria anche da Pd e Avs insiste perché il governo riferisca almeno in aula e sarebbe davvero il minimo.
In realtà anche un passaggio parlamentare con tanto di voto non avrebbe comportato alcun rischio per le sorti dell’accordo Meloni-Rama. Ma un dibattito accompagnato da gran clamore avrebbe messo in evidenza i moltissimi punti deboli dell’intesa, ed è precisamente quel che la premier vuole evitare.
Che il trattato ufficializzato con qualche dettaglio martedì sera, dopo il fragoroso annuncio del giorno prima, sia anche, e in non lieve misura, una mossa da campagna elettorale sembra evidente.
L’esternalizzazione in terra albanese del Cpr per i richiedenti asilo partirà in primavera. A tagliare il nastro sarà Giorgia Meloni in persona e guarda caso proprio alle soglie del voto del 9 giugno. Non è una ricerca di consenso in conto maggioranza ma a favore di FdI, dunque con un rivale interno, la Lega.
Sul fronte immigrazione il bilancio della premier è disastroso, la questione per buona parte dell’elettorato di destra è la più importante di tutte, l’eventualità di una campagna elettorale leghista tutta giocata su una mal dissimulata ma sferzante critica alla strategia dell’alleata è quasi una certezza.
La mossa a effetto dell’accordo con Edi Rama serve anche a parare quel colpo. Non è un caso, dunque, che secondo voci e ricostruzioni smentite ieri dalle solite “fonti” di palazzo Chigi dell’accordo non sarebbero stati messi preventivamente al corrente proprio Salvini e il ministro degli Interni Piantedosi, considerato di area leghista.
Ne sapevano molto i due sottosegretari alla presidenza del Consiglio, Mantovano e Fazzolari, era stato avvertito, ma senza giocare alcun ruolo, il ministro degli Esteri e vicepremier Tajani. “Entrambi i vicepremier sono stati pienamente coinvolti”, assicurano le “fonti” ma, al di là dei dubbi che la smentita non dissipa del tutto, la sostanza non cambia. La Lega è stata tagliata fuori dalla manovra albanese. Va da sé che il ministro delle Infrastrutture e quello degli Interni schiumino risentimento.
Non che Salvini lo ammetta apertamente, loda anzi l’accordo pur abbassando di molto i decibel rispetto al trionfalismo iperbolico di FdI: “Passo concreto e significativo. Tirana ha capito che l’Italia non è il campo profughi d’Europa. Bruxelles ancora no”. L’ultimo passaggio è significativo.
La premier aveva già sottratto alla Lega ogni voce in capitolo sulla questione immigrazione mettendola nelle mani del sottosegretario Mantovano, cioè di palazzo Chigi e di fatto di se stessa. Ora mira a occupare la posizione dell’alleato/rivale leghista, che da sempre martella sulla necessità di “fare da soli” senza aspettare la Ue.
E’ precisamente quel che la premier ha fatto in questo caso, muovendosi senza l’Europa e anzi contro l’Europa però mettendo le cose in modo da eclissare completamente il ringhioso ex ministro degli Interni.
Al posto di Salvini, come d’abitudine, si esprime e si espone il ventriloquo vice Andrea Crippa: “L’accordo è ottimo. Però l’Italia deve fare l’Italia. E Salvini quando ha fatto il ministro dell’Interno ha fermato l’immigrazione clandestina. Forse il fatto che sia andato a processo ha indotto gli altri a essere più prudenti”. Un modo quasi esplicito per accusare la premier di non avere il coraggio di assumere posizioni drastiche.
Il rischio forte, per la premier, è che anche questa trovata si risolva in débacle. Le minacce sono tre: il verdetto dell’Europa, anche se ieri l’accordo è stato definito “interessante” dal commissario per l’allargamento della Ue Vàrhelyi, quello della magistratura italiana sui profili di incostituzionalità, anche più incerto, l’efficacia di una formula che presenta ampi margini di fragilità. Ma sono tutti elementi che emergeranno, se succederà, a elezioni europee consumate e per il momento questo è per la premier e leader di FdI ciò che più conta.