La guerra in Medioriente

Intervista a Matteo Orfini: “Ecco perché Hamas ha ritrovato forza”

«L’attacco terroristico del 7 ottobre è uno spartiacque anche per chi si è sempre battuto per la libertà del popolo palestinese. La reazione di Israele che sta producendo un disastro umanitario è inaccettabile. Serve subito un cessate il fuoco»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

7 Novembre 2023 alle 14:00

Condividi l'articolo

Il membro della Direzione Pd Matteo Orfini
Il membro della Direzione Pd Matteo Orfini

La guerra di Gaza. La guerra e la sinistra. L’Unità ne discute con Matteo Orfini, parlamentare e membro della Direzione Pd, già presidente del Partito democratico.

Onorevole Orfini, come ci si sente ad essere additato come “filo Hamas”?
Stiamo parlando di una campagna che va avanti da anni da parte dei giornali di destra, che è semplicemente vergognosa. Una campagna che si basa sul fatto che io – come diversi altri parlamentari – ho incontrato una persona conosciuta nel mio collegio elettorale di allora. Quell’associazione di palestinesi aveva la sede in quel collegio di Roma, Centocelle. In una normale attività di collegio, mi è capitato di incontrare anche questa realtà. Dopodiché la persona in questione viene successivamente accusata di promuovere delle raccolte di fondi per Hamas. Queste accuse sono arrivate successivamente a quell’incontro. Io non ne sapevo nulla. D’altro canto, fiancheggiare il terrorismo è un reato, se fosse stato compiuto la persona in questione non credo che sarebbe ancora a piede libero. Mi si dice che questa cosa era nota ai servizi segreti di mezzo mondo. Non so come i giornali di destra abbiano evidentemente rapporti con i servizi segreti di mezzo mondo, fatto è che noi parlamentari queste notizie, ammesso che siano vere, non l’avevamo. Io certamente non ne ero in possesso. Detto questo, non c’è dubbio che le cose che la persona in questione sta dicendo in questi giorni non le condivido io come non le condivide il Partito democratico.
Ma questa vicenda ha anche un valore più generale…

Vale a dire?
È lo specchio della barbarie con cui un pezzo della stampa italiana sta affrontando questa discussione. Noi avremmo bisogno di ragionevolezza, di serietà, di pacatezza, invece si preferisce lanciare accuse infamanti, si preferisce accendere il clima, si punta a sobillare l’odio.

Come definirebbe ciò che sta accadendo a Gaza?
Nella Striscia di Gaza c’è una situazione assolutamente drammatica, che deve terminare il prima possibile con un cessate il fuoco che noi come Pd abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere. Una tregua che porti alla liberazione di tutti gli ostaggi, che produca il necessario intervento umanitario per assistere una popolazione stremata da settimane di bombardamenti. Per provare a fare un ragionamento serio, e arrivare a quello che si deve fare oggi, quello che deve fare la politica, noi dovremmo riavvolgere il nastro e cercare di recuperare la complessità di questa vicenda. Lo ha detto anche Obama l’altro giorno in un videomessaggio. Abbiamo bisogno di allontanarci da una logica in cui semplifichiamo tutto e non vediamo la complessità della situazione. Quello che ha fatto Hamas, il 7 ottobre, è un atto allucinante, ingiustificabile, assolutamente da condannare. Un atto terroristico, perché tale è l’attacco indiscriminato a civili inermi nell’operazione che avevano pianificato da tempo. Quell’evento è stato uno spartiacque. Rispetto anche a quelli come me, e tanti altri, che hanno sempre lottato per la libertà e l’autonomia del popolo palestinese, secondo la storica parola d’ordine dei “due popoli, due stati”. Quelle modalità criminali non appartengono alla storia che noi abbiamo difeso, non appartengono alla lotta del popolo palestinese nella quale noi ci siamo riconosciuti. Così come la strategia, l’ideologia, la pratica di Hamas non corrispondono a quella che storicamente era la battaglia per l’autonomia e l’autodeterminazione del popolo palestinese. Una battaglia politica, laica, che riconosceva – soprattutto agli inizi degli anni’90, che portò alla firma degli accordi di Oslo-Washington, nel settembre del 1993, con la storica stretta di mano sul prato della Casa Bianca tra Rabin e Arafat- l’esistenza e il diritto alla sicurezza dello Stato d’Israele. Quell’atto terroristico del 7 ottobre, che peraltro Hamas afferma di voler ripetere al più presto, chiarisce definitivamente, se ci fossero ancora dubbi, qual è la natura di Hamas e chiarisce anche la necessità d’Israele di difendersi e di immaginare una Palestina senza Hamas, senza le leadership terroristiche, come premessa della propria sicurezza. E poi c’è un’altra cosa su cui noi che abbiamo a cuore la vicenda palestinese dovremmo essere estremamente vigili, i più vigili.

A cosa si riferisce?
Al riemergere di fenomeni inquietanti di antisemitismo, più o meno consapevole. Ci sono atti esplicitamente antisemiti ma anche una certa inconsapevolezza, a volte figlia di leggerezza, a volte di una radicalizzazione ignorante. Quando io vedo e sento, chi, magari senza nemmeno capire cosa dice, scandire slogan come “From the river to the sea Palestine will be free”, sta di fatto negando il diritto ad esistere allo Stato d’Israele. Da questa vicenda non si può uscire con la ripresa di un sentimento antisemita, da un lato, e dall’altro con l’islomofobia che una parte della stampa del nostro paese, ritirando fuori lo scontro di civiltà, sta rilanciando in modo pericoloso e irresponsabile.
Come sinistra, come Pd, dobbiamo essere in prima linea nel monitorare e additare per quel che sono gravi e ingiustificabili atti di antisemitismo che stanno pericolosamente riemergendo. Al tempo stesso, dopo un mese dal 7 ottobre, dobbiamo affermare con forza che la reazione d’Israele che sta producendo un disastro umanitario, con migliaia di vittime civili, un bollettino quotidiano di dolore e disperazione inaccettabili, è sbagliata e inaccettabile. Ed anche una strategia sbagliata. E lo è per diverse ragioni. E su questo vorrei tornare indietro nel tempo.

Per ricordare cosa?
Penso all’intervento che Massimo D’Alema fece in Parlamento dopo l’11 settembre 2001, in cui affermò, e non fu il solo a sostenerlo, che l’obiettivo della politica doveva essere prosciugare i giacimenti dell’odio, dentro i quali i terroristi si alimentano.
La sensazione che ho maturato è che in questo mese abbiamo accumulato una quantità tremenda di odio. Per l’azione di Hamas, perché quando entri nelle case delle persone, ammazzi bambini, donne, uomini, spari su ragazzi che ballano, e altri li rapisci, è chiaro che scateni un odio terribile. Ma quest’odio si sta accumulando anche a Gaza. Noi dovremmo isolare Hamas. Invece la sensazione è che da quello che sta accadendo, Hamas potrebbe trarre nuovi adepti.

Cosa fare?
Dovremmo rilanciare, anche in un momento complicatissimo come questo, una prospettiva di pacificazione. Dovremmo farlo isolando Hamas nel mondo arabo e anche nel popolo palestinese, spiegando che le azioni terroristiche di Hamas nulla portano alla causa, anzi allontanano decisamente la prospettiva della libertà, dell’autonomia di uno Stato palestinese. Va anche detto che l’opera di delegittimazione dell’Autorità Palestinese, che in questo c’ha messo anche del suo, e che ha portato al rafforzamento di Hamas, è stata anche il prodotto dell’atteggiamento di un certo estremismo di una parte delle classi dirigenti israeliane, a cominciare da Netanyahu. La strategia di isolamento di Hamas, di cercare il rilancio di una strategia di pace, passa per il coinvolgimento del mondo arabo, per la rilegittimazione delle classi dirigenti palestinesi in grado di rappresentare un’alternativa realistica ad Hamas. So che è difficile dirlo, ma non so quanto sia utile, in questa drammatica situazione, Marwan Barghuthi in carcere. So che è un tema controverso, che ci sono mille ragioni per rispondere che deve restare in carcere, so tutto. Ma alcune scelte fatte da Israele in questi anni hanno finito per rafforzare Hamas invece che indebolirla o isolarla. E la vicenda Barghuthi rientra in questo. Ma per riaprire uno spiraglio di pace, occorre anzitutto giungere ad un cessate il fuoco. E l’Europa dovrebbe agire in tal senso.

Sabato prossimo il Pd ha indetto una manifestazione nazionale a Roma. Era stata convocata sui temi sociali, ma alla luce di quanto sta accadendo in Medioriente, la pace non dovrebbe esserne l’aspetto principale?
La pace ci sarà dentro la piattaforma di quella manifestazione. L’ha già annunciato la Segretaria. Va riconosciuto, anche da chi come me non l’ha votata al congresso e nelle primarie, che l’atteggiamento che Elly Schlein ha avuto e il modo in cui ha guidato il Pd in questo mese molto, molto difficile e complicato, siano stati ineccepibili. L’equilibrio che abbiamo mantenuto, la capacità di tenere unito il partito in una situazione così delicata, il coinvolgimento attraverso cui siamo arrivati alle decisioni assunte, sono state assolutamente positivi e di questo va dato merito a chi guida il Pd. È chiaro che in quella manifestazione la pace deve vivere, esserne un connotato fondamentale. Una pace definita, che significa diritto all’esistenza e alla sicurezza d’Israele, cessate il fuoco immediato a Gaza, che significa due popoli, due Stati, protezione dei civili. Tutte le cose che abbiamo detto devono esserci e ci saranno.

In questo terrificante mese, in molti hanno riesumato la soluzione a due Stati. Ma come è possibile realizzare uno Stato palestinese, che non sia un bantustan, quando nella Cisgiordania occupata vivono e la fanno da padroni mezzo milione di coloni israeliani?
Il modo in cui, soprattutto negli ultimi anni, si è legittimata l’occupazione dei coloni, si siano armati, è qualcosa non solo di sbagliato ma di inaccettabile. In tutto questo ha pesato e molto il silenzio della comunità internazionale. La questione mediorientale è scomparsa dal dibattito e dall’attenzione dell’Europa, anche ma non solo per la guerra in Ucraina. È stato un errore che ha consentito il crescere degli estremismi. L’estremismo dei coloni e il terrorismo di Hamas. Oggi è molto più difficile l’affermazione due popoli, due stati. Ma la storia c’insegna che è proprio nei momenti più drammatici che si riesce a rilanciare un processo di pace, perché di fronte all’abisso e al rischio di una escalation sempre più esplosiva, a volte si trova la forza di fermarsi. Se non la trovano gli attori coinvolti nel conflitto, è quello che comunque deve fare la comunità internazionale. Devo riconoscere che l’amministrazione Biden fin qui sta avendo un ruolo, molto più dell’Europa, nel senso che tutto sommato sta agendo con responsabilità e con un protagonismo decisamente superiore a quello di una Europa ancora una volta assente.

7 Novembre 2023

Condividi l'articolo