La guerra di Gaza
“Hamas è per il martirio, non fa compromessi”, parla Stefano Silvestri
«Nel fallimento della soluzione a due stati c’è responsabilità da entrambe le parti. Biden vuole far riprendere il dialogo tra Israele e mondo arabo, ma ciò richiede che la guerra finisca in modo accettabile.»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La guerra di Gaza rischia di far esplodere la polveriera mediorientale. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli analisti di politica internazionale: il professor Stefano Silvestri, già presidente dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) ed oggi consigliere scientifico. È stato anche docente sui problemi di sicurezza dell’area mediterranea, presso il Bologna Center della Johns Hopkins University e ha lavorato presso l’International Institute for Strategic Studies di Londra.
Quello che è stato definito l’“11 Settembre” d’Israele e la guerra a Gaza possono essere considerati un punto di non ritorno, lo spartiacque tra il prima e il dopo, non solo per quanto concerne il conflitto israelo-palestinese ma per l’assetto dell’intero Medio Oriente?
Questo è difficile dirlo anche perché le variabili in campo, non solo e tanto sul piano militare ma su quello diplomatico-politico, sono tante e in rapida evoluzione. Certamente per Israele o quanto meno per una parte della sua opinione pubblica che pensava che il problema palestinese fosse sostanzialmente finito o in via di liquidazione, ciò che è avvenuto il 7 ottobre è uno shock, e quindi richiederà inevitabilmente una modifica sostanziale, molto più di una semplice correzione, della politica israeliana. D’altro canto è anche un problema per gli arabi…
Perché, professor Silvestri?
Ciò che è avvenuto dopo il 7 ottobre è la riprova palese della debolezza dei governi arabi di fronte alla piazza. Da questo punto di vista è una conferma, simile a quella delle “Primavere arabe”. Una piazza ingovernabile, guidata da un sentimento di rabbia, di protesta, ma evidentemente tanto basta per paralizzare le scelte dei governanti. Il risultato non so quale sarà. Certamente alla fine di questa storia bisognerà prendere in considerazione un qualche mutamento del Medio Oriente, vedere quali saranno i nuovi equilibri ed orientamenti. In questo momento gli attori sembrano essere ridotti a Israele e all’Iran, gli altri sembrano essere defilati o tenuti da parte. In realtà, l’Arabia Saudita, la Turchia, gli emirati del Golfo, in primis il Qatar, continuano ad essere attori molto rilevanti per il futuro della regione. E non vanno dimenticati i Paesi del Maghreb, stavolta coinvolti anch’essi. Si pensi al Marocco, che aveva avviato un rapporto con Israele. Tutto questo dovrà svilupparsi in qualche maniera ma non sappiamo ancora quale.
Senza farle vestire i panni dell’astrologo, ma richiamando la sua lunga esperienza nel campo della politica internazionale. Quali prospettive possono delinearsi?
La tesi ottimistica è che Israele, dopo aver fatto la sua azione contro Hamas, cosa che mi sembra inevitabile, prenda atto della necessità di risolvere la questione palestinese nell’unica maniera che finora abbiamo individuato, quella dei due Stati. La qualcosa è estremamente complicata per Israele ormai, anche perché c’è una parte importante della sua opinione pubblica che è fermamente contraria alla nascita di uno Stato palestinese, in qualunque modalità esso fosse costituito. Le alternative, però, sembrano non essere gestibili. Può esserci anche chi punta a una cosa diversa, che comunque cambierebbe profondamente il volto del Medio Oriente…
Vale a dire?
Una guerra generalizzata contro l’Iran, ad esempio. Non penso che questo risolverebbe molti problemi, ma certamente rischierebbe di essere un allargamento del conflitto che potenze globali come gli Stati Uniti e anche la Cina, alleata dell’Iran in questo momento, non credo che vogliano. Un po’ come in passato. Si pensi alle precedenti guerre tra Egitto e Israele. Alla fine anche Paesi che erano avversari tra loro, come l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, finirono per cooperare al fine di trovare una soluzione di stallo che poi portò ai rapporti diplomatici diretti tra Egitto e Israele. Nella guerra del Kippur non ci fu una grande vittoria araba, ma Mosca e Washington evitarono la sconfitta egiziana, e quindi permisero all’Egitto del presidente Sadat di parlare di guerra vinta e quindi di poter fare la pace con Israele. Ma fu una imposizione dall’esterno.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, scatenando l’ira d’Israele che ne ha chiesto le dimissioni, ha affermato, aprendo i lavori del Consiglio di sicurezza, che “Hamas non nasce dal nulla” ricordando i 56 anni di occupazione dei Territori palestinesi, successiva alla Guerra dei Sei giorni dell’estate del 1967.
Certo che Hamas non nasce dal nulla. Hamas nasce da un doppio processo. Nasce in parte dal movimento palestinese, ma nella sua essenza più significativa, dominante, Hamas è un movimento fondamentalista islamico. Nasce dai Fratelli musulmani, come al-Qaeda. Hamas non è un campione dei palestinesi. Usa i palestinesi, ma è un movimento terroristico. Probabilmente Guterres pensa a un’altra cosa Pensava alla non risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Ma la non risoluzione di quel conflitto è solo metà del problema. L’altra metà è che Hamas non è l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’Olp, non è l’Fln algerino. È una organizzazione fondamentalista islamica, cosa completamente diversa. Ci sono due realtà che si sono incontrate e che rendono il problema particolarmente difficile da gestire. Perché Hamas non ha alcun interesse a fare compromessi con Israele. Hamas è per il martirio.
Si è detto prima della soluzione a due Stati. Ma in tutti questi anni la comunità internazionale non agendo, ad esempio, sulla massiccia colonizzazione israeliana della Cisgiordania, non ha di fatto resa impraticabile questa soluzione?
La situazione è dovuta in parte alla svolta a destra d’Israele e in parte all’estrema debolezza dell’Autorità Palestinese, e in particolare dell’Olp, che non è mai stata capace di accettare fino in fondo i compromessi necessari per la soluzione dei due Stati e quindi ha consentito a Israele di ignorare i progressi che erano stati fatti in quella direzione. Anche in questo caso, c’è stata una doppia responsabilità. Israele, avendo la forza dell’occupazione, la potenza per dominare sui Territori occupati, ha la responsabilità maggiore, ma una simile responsabilità c’è anche da parte palestinese. E questo ha consentito che innanzitutto il mondo arabo e poi il resto del mondo non se ne occupasse più, almeno non se ne occupasse seriamente. Con l’affermarsi del terrorismo nelle dimensioni del 7 ottobre, i movimenti politici del mondo arabo finiscono nelle mani dei fondamentalisti islamici, i quali sono disposti a tutto. Malgrado siano fondamentalisti sunniti finiscono per accettare l’aiuto degli sciiti, purché fondamentalisti. Questa è una minaccia che va ben oltre Israele.
Condivide la tesi che il rinvio dell’invasione di Gaza da parte israeliana sia dovuta se non del tutto in gran parte al “freno” americano. Come valuta l’atteggiamento fin qui tenuto dall’amministrazione Biden?
L’amministrazione Biden ha evidentemente il problema degli ostaggi, un problema che non può non riguardare anche la strategia sul campo di Netanyahu. Gli Stati Uniti hanno appoggiato Israele, cercando di mantenerne alta l’immagine. Al tempo stesso Biden non vuole che, sull’onda dell’emozione, il conflitto si allarghi e finisca per coinvolgere altri Paesi e portare nel conflitto, più direttamente, altre potenze. L’amministrazione Biden vorrebbe riprendere il dialogo tra Israele e il mondo arabo ma questo richiederà tempo, soprattutto richiederà che in qualche maniera il conflitto si concluda in un modo accettabile. La distruzione di Hamas non pone problemi, ma la morte di migliaia di civili a Gaza può porre grossi problemi. È un compito molto difficile. L’invito a Israele a rispettare quanto più possibile le norme del diritto internazionale e umanitario anche in una situazione di guerra, è chiaro. Il ritardo nell’azione da terra è dovuto forse alla necessità di irrobustire la presenza americana nel Mediterraneo e in Medio Oriente, così da accrescere l’aspetto dissuasivo con la presenza americana nell’area, in primo luogo nei confronti dell’Iran ma anche delle altre potenze, in modo che la crisi in atto possa essere portata a conclusione.
E Biden? Molti mettevano in dubbio le capacità di “Sleepy Joe”.
Nel complesso devo dire che Biden, come nei confronti dell’Ucraina, si stia comportando bene. Dal punto di vista della politica estera, è un grande presidente. Ci sono degli aspetti su cui noi possiamo essere meno convinti…
Vale a dire?
Ad esempio la sua insistenza su questa immagine della “lega delle democrazie”. Qualcosa che può diventare ideologicamente abbastanza curiosa. Una “lega delle democrazie” è difficile che possa includere l’Arabia Saudita o la Turchia, solo per fare due riferimenti. È una giustificazione ideologica che in qualche maniera è volta ad accrescere l’immagine dell’Occidente nel mondo, in un momento in cui è sfidato dal cosiddetto “Sud globale”. Comunque sia, le azioni di Biden finora sono buone.
In questo rimettersi in movimento da parte della diplomazia internazionale, resta il “vuoto” dell’Europa, mascherato dai viaggi a Gerusalemme dei vari leader europei.
L’Europa ha un grosso problema. Tutti questi viaggi sono i viaggi dei singoli Paesi europei, dei loro primi ministri o capi di Stato. Quando poi si tratta di mettere in piedi un’azione comune, emerge tutta la debolezza, che non nasce certo oggi, di una politica estera comune dell’Europa. E questo limita moltissimo l’iniziativa e il ruolo dell’Europa. Non è possibile avere una forte iniziativa europea, se la Germania dice una cosa, la Francia ne sottolinea un’altra, così pure l’Inghilterra o l’Italia. La capacità dei singoli Paesi europei di influire sulle dinamiche in Medio Oriente è estremamente limitata, mentre un’azione europea coesa sarebbe molto più efficace. L’Unione Europea non ha ancora le istituzioni per fare questo. Ha provato a prendere la leadership la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e subito questo ha provocato la gelosia del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel e dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, che sono i titolari teorici di una politica estera europea che peraltro non c’è, ancora. Questa è la chiave della debolezza europea. Detto ciò, l’Europa ha reagito bene sul fronte russo-ucraino, e tutto sommato sta tenendo il punto anche nei confronti d’Israele. Credo che questo, in buona parte, lo dobbiamo attribuire alla posizione netta degli Stati Uniti che assicurano i binari entro cui muoversi.