La guerra in Medioriente
Così Biden prova a fermare i falchi di Netanyahu
I tempi della politica non sono i tempi del giudizio. Neanche le scelte della politica. Il giudizio è sul passato, in tutti i suoi complessi aspetti, la politica guarda al futuro. Lo capiranno gli opinionisti?
Esteri - di Michele Prospero
Il viaggio israeliano di “Sleepy Joe” non ha strappato condizioni di sensazionale novità nello scacchiere mediorientale, ma è comunque da registrare come uno dei più energici e costruttivi atti di politica internazionale recentemente compiuti dalla Casa Bianca. L’invocazione delle più drastiche misure di guerra (intervento di terra a Gaza), richieste nell’immediato da Tel Aviv per mostrare la tempestiva capacità di fuoco del governo schierato a presidio di un Paese colpito da truci attacchi terroristici, ha indotto il presidente americano ad una visita lampo.
A causa della strage all’ospedale battista non ha incontrato i leaders arabi come preventivato, ma è riuscito a spingere l’impulsivo governo della destra israeliana a raffreddare l’ira e a calibrare le iniziative militari alla luce della proporzionalità e ragionevolezza delle risposte in cantiere. L’insistenza del comandante in capo sull’obbligo di scongiurare gli “errori” che, per sua stessa ammissione, gli Stati Uniti hanno compiuto dopo l’11 settembre nel maldestro tentativo di vincere la “guerra al terrore”, rivela la consapevolezza che la replica a dei crimini odiosi non può mai scivolare verso l’assunzione del principio barbarico della colpa oggettiva, che ricade su un intero popolo (esodo forzato, bombardamenti a tappeto, chiusura di ogni accesso ad acqua, luce, cibo e medicine).
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La lezione di misura e realismo di Biden vale per i protagonisti politici del Medio Oriente, con le loro strategie oramai incontrollate, ma anche per le province dell’Impero. Il livello scadente del dibattito italiano sui recenti fatti della Striscia di Gaza dipende anche dalla confusione tra due piani del discorso che invece già Aristotele invitava a tenere ben distinti: chi esita a fornire un chiaro giudizio sull’ultima efferatezza commessa contro i civili israeliani si rifugia nella necessità di tentare un’analisi più complessa in grado di attribuire le responsabilità delle parti entro le coordinate di un bilancio storico ad ampio raggio; coloro che, invece, evitano ogni riconduzione del sangue di oggi a questioni ancora aperte di ieri esortano le truppe di Tsahal a compiere delle esemplari opere di vendetta e annientamento chiamandole “diritto statale alla legittima difesa”.
Nella “Retorica” lo Stagirita forniva suggerimenti concettuali utili a dipanare anche le risse verbali che si susseguono senza sosta nei talk-show domestici. Dal momento che politica e diritto hanno “ciascuno un suo tempo specifico”, egli attribuiva solo al momento giudiziario la confezione di provvedimenti modellati sul passato, e quindi conditi di fatti, cause, narrazioni puntuali delle vicende lontane assunte come oggetto di imputazione: tocca infatti ai tribunali accertare la effettiva dinamica delle azioni e pronunciare una sentenza sulla base degli accadimenti ricostruiti nella loro interezza.
Le parole della politica, invece, non possono ricalcare le tappe di una storia giustiziera che valuti nell’intervallo più lungo i molteplici profili delle condotte incriminate. Aristotele spiegava infatti che il peculiare “tempo” che scandisce la fenomenologia del discorso politico è il futuro. Nella sfera pubblica si tratta cioè di incastrare le argomentazioni per decidere su cose possibili e di sciogliere i nodi controversi. La narratio dei processi reali, con valutazione di eventi che si sono già verificati, in una deliberazione politica è ammessa solo se risulta funzionale alla giustificazione di scelte orientate ad incidere negli anni a venire.
Biden ha calibrato bene i due “tempi”. Ha accennato opportunamente al dato storico ineludibile e, davanti al drammatico bilancio degli ultimi decenni, ha rimarcato anche il dovere di fornire risposte politiche efficaci alla crisi israelo-palestinese. Le sue frasi giungono chiarificatrici pure in Italia. Da noi “l’Occidente” è infatti diventato il vessillo ambiguo di losche figure di sovranisti e affini che parlano di un esecutivo a “difesa di Dio”, inneggiano alla “guerra di civiltà”. Negli studi televisivi c’è addirittura chi reclama una distruzione riparatrice, con l’occupazione manu militari dei territori palestinesi o, persino, attraverso l’onda liberatrice lasciata dalle bombe atomiche.
Se però l’occidente evoca un principio politico-valoriale distintivo, in quanto tale incompatibile con la cultura dei post-fascisti e degli alleati salviniani, esso coincide con l’accantonamento laico di nozioni teologiche molto scivolose come lo “scontro di civiltà”, la “guerra giusta”, la pratica di morte “in nome di Dio”, le quali – ironia della sorte – si dimostrano in realtà assai più consone alla caricatura che i nuovi “crociati” fanno dei loro “nemici” che non ai canoni di una moderna liberaldemocrazia. Il lascito teorico di Alberico Gentili o Locke è rintracciabile nell’invito a dismettere la maschera religiosa che manipola gli interessi prosaici per mobilitare il fanatismo nel fronteggiarsi bellico.
Lo spazio dell’Europa, e l’influenza delle sue categorie secolarizzate e liberali, si restringe drasticamente se la politica, intesa come arte capace di mediazione anche nelle condizioni più difficili, cede dinanzi all’etica misticheggiante, che reclama una intransigenza armata nella salvaguardia dei propri sacri valori. Se la guerra d’aggressione all’Ucraina si tramuta in uno scontro irriducibile “democrazia-autocrazia” e il conflitto in Palestina viene declinato come urto tra la civiltà e i “macellai islamici”, il momento della politica, come costruzione di ponti negoziali anche nelle situazioni di avversione radicale, declina pericolosamente.
L’escalation militare è cresciuta da quando la democrazia israeliana è stata trasfigurata da scorciatoie confessionali – che si sono tradotte in norme lato sensu costituzionali ambigue, come quella del 2018 che stabilisce il carattere religioso esclusivo di Israele quale “Stato-Nazione del popolo ebraico”, o nella costituzione pochi mesi fa di una Guardia nazionale alle strette dipendenze di un ministro estremista come Ben Gvir – e la laicità dei primi movimenti di liberazione della Palestina è stata infilzata dalla inclinazione al martiro e allo sterminio in nome del partito armato di Dio.
Divenuta irrealistica l’antica formula dei “due popoli, due Stati” dinanzi alla frammentazione caotica territoriale, alla colonizzazione di ampi spazi altrui dietro la volontà di possesso di coltivatori con licenza di fuoco, aperto è rimasto solo il cantiere della inimicizia assoluta. Grave è che l’occidente abbia ritenuto ormai archiviata la questione palestinese e sia stato svegliato dal proprio sonno dogmatico solo dalle atrocità dei tagliagole.
È vero che Biden non ha osato negare l’abbraccio all’impresentabile Netanyahu. Egli sa bene però che si tratta di un leader irresponsabile che ha sempre alzato ostacoli ad ogni composizione onorevole della tragedia infinita di un popolo disperso. In alcuni accenni, il presidente americano è apparso del tutto consapevole di dover rispondere al problema storico-politico di come conciliare il diritto alla sopravvivenza di Israele con l’insopprimibile aspirazione palestinese a darsi la dignità di Stato autonomo.
L’Occidente, di fronte all’infittirsi delle situazioni esplosive di un mondo fuori controllo, in preda a guerre latenti o dichiarate e a un terrorismo diffuso che si annuncia nelle città con omicidi fai da te, non può lasciar cadere la prospettiva di un ordine multipolare. E’ in atto un ineluttabile spostamento degli equilibri di forza che si annuncia nitido anche con la valigetta nucleare di Putin esibita al cospetto del leader cinese.
Il peso degli idoli della democrazia, dei diritti, delle libertà nell’assetto post-americano si misura con la leggerezza dell’inventiva politica, non con l’assordante linguaggio degli armamenti. La soluzione all’esplosiva emergenza mediorientale non può che venire dalle decisioni degli attori internazionali più influenti e interessati alla condirezione della nuova governance globale.