La guerra in Medioriente
“Hamas o no i palestinesi restano: quale è il piano per Gaza?”, intervista a Renzo Guolo
«Sulla distruzione dell’organizzazione ci sono perplessità anche tra gli alleati di Israele. Il nodo è il costo politico di questa operazione e soprattutto cosa accadrà dopo. Chi dice no a due Stati, ha una alternativa?»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La guerra di Gaza, le divisioni d’Israele, il ruolo degli Stati Uniti, cosa differenzia Hamas dall’Isis. Temi cruciali che meritano riflessioni fondate di chi su queste tematiche ha studiato e lavorato da una vita. Come Renzo Guolo. Professore di Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Padova, Guolo ha studiato le matrici ideologiche e la dimensione geopolitica degli attuali conflitti globali, ricostruendo la cultura e i progetti politici dei fondamentalismi. Si è inoltre occupato dei rapporti tra struttura sociale e regime politico nei paesi islamici.
Professor Guolo, dopo gli attacchi del 7 ottobre, i leader israeliani hanno sostenuto a più riprese: Annienteremo Hamas. Ma lei che dell’Islam radicale armato è tra i più accreditati analisti, ritiene possibile questo obiettivo?
È chiaro e comprensibile che dopo quanto è accaduto, Israele tenda a eliminare quello che ritiene un pericolo che è ormai diventato qualcosa di più di una semplice minaccia dopo l’aggressione del 7 ottobre. Il problema è se riuscirà a farlo davvero attraverso l’operazione militare che vorrebbe realizzare a Gaza, su cui le perplessità sono molte anche da parte degli alleati d’Israele, perché il timore è quello che si potrebbe innescare. Il tentativo è quello di distruggere militarmente non solo le infrastrutture ma anche, attraverso eliminazioni mirate, spazzare via le prime fila e i quadri di Hamas che sono ancora a Gaza, perché in realtà la leadership politica esterna, la parte che conta, è fuori. Il nodo è il costo politico che questo elemento avrà.
Nel senso?
Nel senso che in questo momento il vero tema, oltre la reazione che si preannuncia distruttiva, è legato a due fattori. Capire che cosa accadrà dopo. Perché se fosse sostanzialmente una replica dell’operazione Sharon, quando l’allora primo ministro d’Israele abbandona la Striscia di Gaza dopo molti anni di occupazione, il vero nodo d’Israele resta quello ineluso in quel frangente, cioè non riuscire da parte israeliana a concepire una prospettiva realistica per il dopo. I palestinesi nella Striscia ci rimangono, Hamas o no, posto che sia eliminata tutta la prima fila locale. Qual è il progetto politico che viene un istante dopo la “soluzione militare” del problema? Questo è il grande nodo sul campo.
Si scrive e si ripete che Hamas è come l’Isis. Lei che quei movimenti li ha studiati in profondità, non ritiene questa identificazione concettualmente errata?
Dobbiamo distinguere il piano della guerra di propaganda, della mobilitazione valoriale, ideale, dall’analisi di cosa sono davvero le organizzazioni sul campo. Hamas è un’organizzazione che si è presentata alle elezioni nei Territori palestinesi, nel gennaio del 2006, che ha comunque un insediamento popolare. Non solo. È anche un’organizzazione con cui importanti Stati dell’area parlano, si tratti del Qatar o della Turchia. È comprensibile, dopo l’orrore del 7 ottobre, stigmatizzare ciò che è accaduto e fare accostamenti come quello di cui stiamo parlando. Ma se si ragiona da analisti politici, sono due organizzazioni diverse. Nel senso che l’Isis, oggi, è un insieme di gruppi jihadisti che si sentono parte del Jihad globale. Hamas non è un’organizzazione jihadista globale. Si pone il problema, ha come obiettivo dichiarato la realizzazione di uno Stato islamico in Palestina, che è un’altra questione, condivisibile o meno dai suoi avversari. Siamo entrati in una dimensione in cui l’etichettatura è essenziale alla creazione di un clima psicologico favorevole ad una soluzione che porti all’estirpazione di Hamas. Israele, o forse è meglio dire una parte delle forze di governo sostengono una sorta di “soluzione finale” del pericolo Hamas. Queste forze, che hanno molto peso nel governo guidato da Netanyahu, ripetono di non volere più vivere accanto a organizzazioni che possono costituire una minaccia. E questo vale per Hamas e in prospettiva per Hezbollah. C’è un problema però…
Quale, professor Guolo?
Come pensano di ottenere questo obiettivo? Attraverso fasce di sicurezza, attraverso l’istituzionalizzazione a Gaza di un’amministrazione che teoricamente non si vede quale potrebbe essere sul campo, perché diventa complicato pensare che un Paese arabo, o comunque islamico, possa gestire una situazione di questo tipo, se non si apre poi uno spiraglio per la nascita di uno Stato palestinese, secondo la formula dei due Stati. Nessuno si espone, perché questa questione lasciata lì come un bubbone per lunghissimo tempo, adesso minaccia anche la stabilità dei regimi arabi, in particolare quelli che avevano firmato gli Accordi di Abramo. Una questione, quella palestinese, che si supponeva finita ormai nel dimenticatoio, è riemersa drasticamente, tanto è vero che si vuol evitare che si trasformi in un conflitto regionale. Bisogna avere l’onestà intellettuale, anche se è dura affermarlo, di rilevare come Hamas con le sue azioni terroristiche ha ottenuto un successo politico. Il successo politico è nell’aver riproposto, drammaticamente, in maniera per noi assurda e sanguinaria, agli occhi dell’opinione pubblica quella questione palestinese che era svanita completamente, per le scelte politiche israeliane e anche per la miopia dei Paesi occidentali che hanno pensato che, tutto sommato, la cosa poteva non essere affrontata dopo la crisi della Road Map e degli accordi di Oslo-Washington che non sono mai decollati.
In questi giorni di guerra viene riesumata la soluzione a due Stati. Ma sul terreno, non mi riferisco solo alla guerra a Gaza ma alla incessante, massiccia colonizzazione israeliana della Cisgiordania, è ancora una soluzione fattibile?
È un grande problema. Questo non è stato fatto a caso. Nel senso che non fare scelte nel tempo consentiva alla destra israeliana, quella di matrice nazionalista e soprattutto la destra messianica nazional-religiosa, di espandere le colonie nei territori che dovevano essere la base dello Stato palestinese. Qui non siamo più, da tempo ormai, agli insediamenti avamposto, alla roulotte che marcava il territorio, siamo alla costruzione di interi villaggi, di piccole e medie città, dove non vivono soltanto i coloni messianici ma anche una popolazione che è andata lì per una serie di vantaggi legati alle politiche fiscali e ad incentivi economici e abitativi. Fattori che hanno prodotto la colonizzazione di una parte significativa del territorio palestinese. Questo è un vero nodo. D’altra parte, però, qual è l’alternativa? Chi è oggi contro la formula dei due Stati non dice quale sarebbe l’alternativa. Lo Stato islamico di Hamas in Palestina, che non ha nessuna possibilità di realizzarsi per ovvi motivi di asimmetria, oltre a non essere desiderabile? Oppure lo Stato binazionale? Ma gli israeliani per primi oggi non vorrebbero vivere con gli arabi, anche perché demograficamente si ritroverebbero presto in minoranza all’interno del loro Paese. Il vero problema è che tutti dicono non ci sono le condizioni per i due Stati, ma al di là di nuovi campi profughi gestiti dalle Nazioni Unite a Gaza, o di quella forma larvale, embrionale dell’Anp in Cisgiordania – che però da tempo è sottoposta ad un logoramento politico spaventoso, per effetto della loro incapacità di porre la questione sul tappeto e per la loro corruzione – non c’è niente in campo. Il fatto è che la comunità internazionale dovrebbe prendere il toro per le corna e ricominciare dall’accordo del ’93 tra Rabin e Arafat, con la benedizione degli Stati Uniti. Le carte stanno in mano degli Usa, che sono l’unica, vera potenza. Il nodo è che nell’attuale contesto internazionale, oltretutto con il conflitto russo-ucraino ancora aperto, tutto diventa più complicato.
Quello che è stato definito l’ “11 settembre” d’Israele viene dopo mesi di rivolte interne, di proteste di massa contro il “golpe giudiziario” tentato dal governo Netanyahu Quanto pesa tutto questo nella débacle militare e di intelligence subita da Israele il 7 Ottobre?
Pesa moltissimo. Pensiamo al fatto che la linea di Netanyahu è stata sostanzialmente quella di accondiscendere alla richieste della destra nazional-religiosa, soprattutto di Ben-Gvir. Nei fatti ha spostato l’esercito dal confine sud di Gaza alla Cisgiordania per tutelare i coloni. In questi giorni si è un po’ oscurato quello che sta avvenendo con i coloni che stanno facendo sfollare a forza le popolazioni beduine della collina. Le tensioni ci sono e forti in quell’area. Spostare l’esercito a protezione dei coloni ha sguarnito il confine sud, lasciando una sorta di presidio tecnologico che questa volta non ha funzionato, drammaticamente per Israele. C’è sicuramente una responsabilità politica. A ciò va aggiunto che l’esercito israeliano, le Idf, ha una struttura particolare, con una componente sempre in servizio e poi ci sono i riservisti, ed è parte della popolazione. Al di là delle posizioni istituzionali, è stato coinvolto nelle polemiche e nelle proteste nate attorno alle politiche di Netanyahu. Questo scontro interno ha segnato Israele da mesi a questa parte, fino al 7 ottobre, sviando l’attenzione su quello che stava accadendo o si stava preparando a Gaza. Inoltre si presupponeva che alla fine Hamas si sarebbe accontentata di gestire l’amministrabile e che quando ci fossero stati degli attacchi, sottoforma di attentati, le reazioni consuete, cioè bombardamenti e rappresaglia, avrebbero comunque sedato il tutto. Ma la politica presenta il conto quando i nodi restano irrisolti per troppo tempo. E spesso, come in questo caso, li presenta in forme e dimensioni tragiche. L’errore è stato considerare la vicenda palestinese ormai dimenticata e pensare che comunque non potesse generare tensioni di tale portata. Il “salto di qualità” è stato purtroppo drammatico come si è visto. Adesso però mi sembra che molti Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti, si siano resi conto degli errori commessi e il fatto che Gaza non sia invasa già è legato alle pressioni che vengono fatte su Israele perché questo non si trasformi in un conflitto regionale, che è il vero nodo dei prossimi giorni.