Racconto della sopravvissuta
Il dramma di Ziv, sopravvissuta al massacro nel kibbutz: “Ho perso i miei cari, non cerco vendetta”
“Nel bunker, al buio, terrorizzati, intorno a noi il rumore degli spari. I prati della mia infanzia sono diventati campo di battaglia. Ma tutte le bombe del mondo non ci metteranno al sicuro, uccidere civili non è la soluzione. La quiete arriverà solo con la politica”
Esteri - di Umberto De Giovannangeli
Ziv Stahl ha visto la morte in faccia. Quel tragico, maledetto 7 ottobre. La sua è una testimonianza toccante, per tante ragioni. Per la lucidità del suo racconto, per lo struggente ricordo delle amiche, degli amici, dei familiari, che non ci sono più. Ma anche perché Ziv Stahl, nel suo racconto per Haaretz, non si è lasciata sopraffare dall’odio, non ha invocato l’annientamento di Gaza: “Non ho bisogno di vendetta”. Il suo è un grido di giustizia. Per due popoli.
“Ero lì – racconta Ziv Stahl – Ero in visita alla mia amata famiglia nel Kibbutz Kfar Azza, dove sono nata e cresciuta, dove vive la mia gente, la mia famiglia, i miei compagni di classe e amici, amici dei miei genitori, membri del kibbutz, una comunità affiatata. Ero nella stanza di sicurezza quando abbiamo iniziato a renderci conto di ciò che stava accadendo intorno a noi, e ancora non capivamo nulla. Quando mia cognata non rispondeva ai messaggi di preoccupazione, quando il rumore degli spari e dei razzi circondava quella piccola stanza. Quando mia nipote è arrivata con il suo ragazzo, che è stato colpito e ferito mentre teneva chiusa la porta della camera blindata del loro appartamento.
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Hanno attraversato il kibbutz con coraggio e sono arrivati a casa dei suoi genitori – mia sorella – feriti e scioccati. Eravamo lì, terrorizzati per le nostre vite, mia sorella, mio cognato, la loro figlia più giovane, la figlia di mezzo, il suo fidanzato e il cane. Nell’affollata camera di sicurezza, con il ferito steso sul tappeto, ci siamo presi cura di lui con le poche risorse che avevamo, e per ore nessuno è venuto a salvarci. Seduti nell’oscurità, cercando di fare silenzio (per quanto fosse possibile con un giovane che soffriva di dolori terribili a causa di due colpi di pistola nei palmi delle mani e di due braccia rotte), in modo che i terroristi pensassero che non ci fosse nessuno.
Io c’ero, e l’odore del campo di battaglia che invadeva i prati e i marciapiedi della mia infanzia rimane ancora nelle mie narici. La paura mi attanaglia ancora i muscoli e scorre nelle vene. Dopo lunghe ore siamo stati salvati. Una liberazione senza garanzie e in pericolo di vita. Di nuovo. Terrore. Non ho idea di come questo influenzerà il resto della mia vita. Se sarò mai in grado di non temere ogni piccolo rumore, di non immaginare gli spari nel profondo della notte. Ma una cosa sento più forte che mai: dobbiamo fermare questo ciclo di morte. Dobbiamo investire tutto il nostro potere e la nostra energia nell’obiettivo finale, come costruire un futuro pacifico e sicuro per tutti coloro che vivono in questo luogo.
Non finirà con parole come “deterrenza”, “colpo finale”, “decisivo”. La quiete arriverà solo con la politica. Non ho bisogno di vendetta, nulla mi restituirà coloro che se ne sono andati: mia cognata Mira; Tal della mia classe (il gruppo “Shaked”); Bilha, la migliore amica d’infanzia di mia madre, e suo nipote e suo genero; Livnat e Aviv, i cui genitori sono stati nostri vicini per sempre, e i loro figli; Michal, che è stata la mia consigliera da adolescente, e suo figlio; Smadar, la sorella di Liron, e suo marito; Eli, il padre di Avner; e centinaia di altri. I bombardamenti indiscriminati a Gaza e l’uccisione di civili non coinvolti in questi orribili crimini non sono una soluzione. Al contrario, questo è il modo più sicuro per prolungare la violenza, il terrore, il dolore e il lutto.
Devo sapere che c’è chi pensa e si preoccupa anche adesso del futuro di chi resta, del futuro di Kfar Azza e del perimetro, del futuro di tutti gli esseri umani che vivono qui, israeliani e palestinesi. Non sono ingenua, so quanto sarà lungo e difficile. Ma come dimostrano gli ultimi vent’anni, e ancor più gli eventi di questo orribile Shabbat, tutta la potenza militare del mondo non garantirà difesa e sicurezza. Una soluzione politica è l’unica cosa pragmatica possibile – siamo obbligati a provarci, e dobbiamo iniziare questo lavoro oggi”.