Parla la presidente dell'Ucei
Intervista a Noemi Di Segni: “Israele è sola, il mondo non capisce”
«Le si chiede attenzione e proporzionalità, senza rendersi conto della sproporzionalità dell’odio antisemita. Il 7 ottobre la storia è cambiata. La liberazione dei palestinesi non può passare da un’entità vocata al terrore»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Israele sotto attacco, la guerra a Gaza. Un presente insanguinato e un futuro che appare privo di speranza. La parola a Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei).
Da sabato 7 ottobre, Israele e Gaza sono un campo di battaglia. Orrore e morte. E la guerra continua.
Da quel giorno terribile, da quell’attacco barbaro, disumano, lo schema è cambiato e forse il mondo è cambiato. Per Israele la storia che sarà ha svoltato pagina in assoluto. Davanti al massacro, al quale possono seguire altre venti parole dettagliate per descrivere i crimini, le atrocità commessi, la reazione è controllare e assicurare la sicurezza della propria esistenza e del proprio futuro. A ciò si aggiunge una sensazione di solitudine davanti al mondo. Nonostante tante esplicitazioni di orrore, di vicinanza e di condanna della parte terroristica, emerge tanta superficialità nel dire a Israele: dovete stare attenti e essere proporzionali. La proporzionalità dell’azione misurata rispetto all’esigenza di salvaguardare oggi, adesso, in questo momento e nel futuro non l’autonomia del territorio, ma le vite. Il concetto di proporzionalità in questo momento è il più abusato in assoluto. Senza rendersi conto cosa vuol dire per Israele la sproporzionalità dell’odio antisemita che di nuovo si sta completamente riversando, la sproporzionalità delle risoluzioni Onu contro Israele, la sproporzionalità della violenza rispetto a qualsiasi pensiero che Israele possa forse limitare qualcosa. Il territorio di Gaza ha tutta l’autonomia per decidere autonomamente tutto quello che vuole in termini di percorso, di sviluppo o di disumano sviluppo e imporlo a tutta Israele e anche a tutto il mondo, anche se questa è la difficoltà di percezione che c’è in questo momento.
Un passaggio epocale.
Siamo in un cambio storia. Se c’è una guerra, il registro delle azioni, del dilemma umanitario e delle attenzioni che vanno poste, si svolge all’interno del diritto internazionale di guerra. Non è paragonabile quello che si esige in un giorno di festa, come doveva essere quel 7 ottobre, tranquillo, e quello che si esige da un esercito che compie un’azione di difesa. Dubito che qualcuno possa avere ancora l’improntitudine di dire che Israele è quella che ha attaccato per prima. E se tutto questo fosse accaduto il giorno prima, sapendo tutto quello che c’è nella Striscia, per tutelarsi, sarebbe stato il delirio. Le accuse a Israele che conosce solo il linguaggio della forza e della brutalità si sarebbero sprecate. Oggi, di fronte a quello che è stato definito l’ “11 Settembre” dello Stato ebraico, si associa Israele e il diritto di difesa, solo che poi iniziano i ma e i però… Questi ma e però tutti noi li viviamo. Perché il dilemma morale, se sparare o no, c’è in ogni soldato israeliano. L’appello è rivolto a persone che hanno questo dilemma addosso dalla mattina alla sera, in ogni respiro. Ma quello stesso appello non è stato rivolto a chi non ha alcuno scrupolo. Ma proprio perché l’appello è rivolto a chi il dilemma lo vive e lo conosce molto bene, quell’appello non può essere: mi raccomando non fare, perché ci stanno gli altri che soffrono. Bisogna capire perché gli altri soffrono. Se si vuole davvero frenare l’emergenza umanitaria, essa va frenata a monte, da chi davvero abusa e sfrutta queste persone, mi riferisco al popolo palestinese. L’appello che mi sento di fare è capire qual è il vero torturatore di quel popolo, chi lo tiene in ostaggio, e per estensione e per vocazione chi vuole l’annientamento d’Israele. Non c’è liberazione della Palestina, come invocata adesso, che non presupponga distruzione. La liberazione del popolo palestinese non può passare da una entità che è vocata al terrore e all’orrore. È impossibile. Ma il mondo civile, illuminato, europeo, democratico, non riesce a capirlo. Non lo capiscono specialmente le Nazioni Unite. Questo si aggiunge al dolore, alla follia, ai cuori distrutti in 1300 pezzi. E l’isolamento fa ancora più male.
Lei ha affermato che la gente di Gaza è ostaggio di Hamas. Ma cosa potrebbe fare un bambino, un ragazzo palestinese, visto che nella Striscia la maggioranza della popolazione è minorenne, per opporsi a quelli che li terrebbero in ostaggio?
La loro voce è molto flebile, soffocata, e i canali di democrazia per esplicitare il loro pensiero sono pochissimi. È evidente che chi può mettersi in salvo sta cercando di farlo attraverso i corridoi umanitari. Ma è stato proprio Hamas a mettere i blocchi sulle strade. È stato l’Egitto a chiudere il valico di Rafah, a sigillare il confine. L’Europa mette frontiere per i barconi degli immigrati, la Francia schiera la polizia sul confine di Ventimiglia, e così l’Austria, l’Ungheria, la Polonia e tutti i Paesi che respingono, direttamente o indirettamente, persone stipate sui barconi , che certo non sono terroristi di Hamas ma sono dei disperati: respingiamo queste persone, e poi questa Europa si meraviglia che Israele abbia un confine con Gaza. Come si fa a meravigliarsi, addirittura a indignarsi? Israele non deve avere neanche un confine, deve fare entrare chiunque? È follia pretendere questo da Israele, è chiedere a Israele di suicidarsi. Israele si deve difendere. Capisco che è difficile averne contezza, ma la presenza d’Israele nella Striscia di Gaza, come andrà a connotarsi nei prossimi giorni, restituirà anche ai palestinesi uno spazio più dignitoso dove poter sognare di sviluppare le proprie vite. Sicuramente sradicando Hamas avranno una chance in più per vivere meglio. Israele non solo difende i propri cittadini ma, secondo me, fa bene pure agli altri. Non credo che gli arabi israeliani ambiscano ad avere Hamas in sostituzione d’Israele come spazio amministrativo, politico, all’interno del quale vivere. Israele in questo momento fa il lavoro di fuoco e di sangue che va a salvaguardare la frontiera dell’Europa. L’Europa non lo vuol capire, non ha forse gli strumenti di lucidità per superare quel pregiudizio di odio ebraico che ha ormai radicato da secoli.
Nel mese scorso si sono celebrati i trent’anni dalla firma degli accordi di Oslo-Washington. Quegli accordi, suggellati con la storica stretta di mano sul prato della Casa Bianca, tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, sembravano avere aperto una stagione di speranza. Trent’anni dopo, quella speranza è morta?
Penso, temo, proprio di sì. La speranza, HaTikvah, dà il nome all’inno d’Israele. Quegli accordi furono fatti con interlocutori e protagonisti che non esistono più. Non esiste più un Yasser Arafat, con tutto quello che trent’anni fa poteva essere o no la sua autorevolezza e rappresentanza. Allora lui era l’interlocutore riconosciuto. Di quell’assetto di potere oggi non è rimasto più nulla. I percorsi possono essere fatti con chi innanzitutto riconosce Israele. È impossibile pensare ad un accordo che si attua, o prosegue, o si riaggiorna se l’interlocutore che riconosce Israele è inesistente. C’è un interlocutore dentro la Striscia che è quello che si sono scelti loro, hanno votato Hamas con elezioni che si sono definite “democratiche”. E c’è un interlocutore negli altri territori, sempre eletto con elezioni democratiche. I due interlocutori non sono portatori degli stessi interessi, degli stessi percorsi per il popolo palestinese. C’è poi qualcosa che ci chiama in causa direttamente, come cittadini italiani, come europei. Qualcosa di grave e inquietante.
Vale a dire, presidente Di Segni?
Nelle piazze italiane, e in quelle europee, si inneggia ai proclami di Hamas, alla liberazione che passa per la distruzione d’Israele e l’annientamento del popolo ebraico. Questo non lo dicono Abu Mazen o gli arabi israeliani. Lo dicono cittadini italiani che presumono di sapere tutto. O le Università, o i rettori. Scendiamo con i piedi per terra, apriamo bene le orecchie, vediamo bene le immagini, leggiamo bene le parole se riteniamo di far parte di luoghi capaci di produzione di pensiero. Ma questa capacità non c’è. Perché davanti alla distorsione dell’antisemitismo nelle sue molteplici dimensioni e vesti, c’è una specie di annebbiamento del cervello. Tutte le logiche, gli schemi, le analisi improvvisamente si fermano e non possono essere più esplicitate.
Esiste, e non potrebbe essere altrimenti, un legame fortissimo, indissolubile tra la diaspora ebraica e Israele. È nelle cose, nella storia. Tuttavia, non ritiene che sia più giusto parlare di Stato d’Israele e non di Stato ebraico, evitando così di fornire ai nemici d’Israele una identificazione assoluta che poi alimenta l’antisemitismo?
Lo Stato d’Israele è tale come entità politica che ha un suo riconoscimento. È uno Stato ebraico per come è il pensiero per come sono i valori con i quali e per i quali è nato, come patria, come focolaio nazionale, in cui riorganizzarsi come popolo ebraico. È uno Stato ebraico. Ma questo non vuol dire che è solo degli ebrei. È lo Stato con valori e pensiero ebraici, è il luogo dove il popolo ebraico deve sentirsi libero di vivere e affermare la propria tradizione e identità. Cosa poi significhi identità ebraica e come la si espliciti sul piano religioso, e per certi versi anche politico, in Israele vi sono tanti punti di vista, una dialettica e un dibattito che anche in questi mesi abbiamo visto essere faticosissimi. Resta il fatto che è uno Stato ebraico, e come tale lo si vuole. Questo non vuol dire escludere. Come è scritto nella Dichiarazione di nascita dello Stato d’Israele, noi viviamo con tutti quelli che vivono dentro Israele, con tutti i popoli che sono vicini a noi. Non si vive da soli. Israele è un territorio che ingloba molte altre minoranze, non solo musulmani, ma anche drusi, beduini, cattolici, cristiani, ortodossi e molti altri ancora. E deve essere lo spazio che dà a tutti il senso di un luogo speciale, dove possono vivere liberamente le proprie vite quotidiane. Ma è impossibile scindere il rapporto tra Stato d’Israele, Stato ebraico e comunità ebraiche nel mondo, che crea quel legame complessivo, indissolubile, del popolo d’Israele. Tutti insieme. Ma ogni entità ha anche le sue responsabilità. E quando si parla di decisioni, di percorsi, di politiche, di scelte, anche di governo, esse riguardano lo Stato d’Israele, non lo Stato ebraico. Con il suo governo, le sue istituzioni, con il suo esercito. Questa entità, lo Stato d’Israele, è quella che deve prendere tutte le decisioni sulla sua difesa e su come il popolo ebraico può sentirsi sicuro anche in tutto il resto del mondo.