L'addio al Capo dello Stato

Giorgio Napolitano non è l’ultimo comunista ma il primo socialdemocratico

Mentre negli anni 70 Enrico Berlinguer si incaponisce nell’estremo tentativo di tenere in vita una tradizione politica sconfitta dalla storia, Giorgio Napolitano, fin dal decennio precedente, lavora per la ricollocazione della sinistra italiana nel campo del socialismo democratico e liberale.

Politica - di Vittorio Ferla

28 Settembre 2023 alle 18:30

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Giorgio Napolitano non è l’ultimo comunista ma il primo socialdemocratico

Le critiche rivolte alla figura, all’opera e alla storia di Giorgio Napolitano in occasione della sua morte sono sostanzialmente due. La prima, che arriva da destra, è che l’ex presidente della Repubblica sia alla fin fine l’ultimo dei comunisti e che l’impronta ideologica e buia del Novecento resti impressa in modo indelebile sulla sua vicenda. La seconda, che arriva soprattutto da sinistra, è che l’ex dirigente del Pci sia stato in fondo un opportunista, guidato in alcuni passaggi cruciali – soprattutto durante gli anni trascorsi al Quirinale – da un uso strumentale e sovrabbondante delle sue prerogative.

In verità, come ha chiarito l’ex senatrice ed ex ministra Anna Finocchiaro, nel corso del funerale di stato nell’aula della Camera, “Giorgio Napolitano si iscrive al Pci nel dicembre del ‘45 e spiegherà di averlo fatto ‘per impulso morale, piuttosto che per motivazioni ideologiche’, ancora confuse e imprecise. E sulla scorta di due ragioni: il Pci è il partito che più ha combattuto il fascismo; il Pci si mescola al popolo”. Insomma, l’iscrizione al Pci fu soprattutto un impeto esistenziale di libertà e di giustizia, il rifiuto del fascismo in un’Italia e in una Napoli che cercavano un’identità democratica nel caos del dopoguerra, non certo l’adesione ad un’asfittica e ottusa ideologia autoritaria. Aiutano a comprendere fino in fondo il punto le parole di Henry Kissinger, colui che gli rifiutò il visto di ingresso negli Stati Uniti la prima volta e che glielo concesse la seconda.

“Giorgio Napolitano mi fece capire il ruolo che aveva avuto il comunismo italiano nella difesa della democrazia”, disse molti anni dopo l’ex-Segretario di Stato americano. Quel viaggio negli Usa tanto desiderato da Napolitano, grande estimatore della democrazia a stelle e strisce, fu l’inizio di un’improbabile quanto profonda amicizia tra i due personaggi, che si nutrì di ammirazione e comprensione reciproca. E, del resto, pure Stefano Stefanini, ex consigliere diplomatico di Napolitano ha di recente espresso il dubbio che l’ex presidente fosse mai stato comunista: “Lo sentii spesso citare Croce e Keynes; mai Marx”, ha ammesso. Alla base di questo dubbio ci sono ragioni profonde che emergono dai “due caratteri propri del suo impegno politico”, esplicitati ancora da Finocchiaro: la conoscenza e il pragmatismo.

Il primo, ha detto l’ex ministra, “è la necessità che la conoscenza e la competenza siano a fondamento dell’analisi e della proposta”. Nella prefazione a I moniti all’Europa di Thomas Mann, Napolitano scrive: “Non può esserci politica, nella pienezza del suo significato e della sua efficacia, in assenza di serie basi e validi strumenti culturali…”. Il secondo carattere è il pragmatismo, “perché l’agire politico ha come fine quello di mutare positivamente l’esistente. Ancora qui, credo, sta un altro tratto del suo impegno, frutto di maturazione e di coraggioso riconoscimento di errori: sfuggire all’ideologismo”, ha concluso Finocchiaro. Facile, qui, il richiamo alla lezione di un suo illustre predecessore: quel Luigi Einaudi che, nel 1955, nelle sue Prediche inutili, si domandava: “come si può deliberare senza conoscere?”. E sottolineava che “il problema, una volta posto, deve esser risoluto”.

Insomma, nel metodo politico di Napolitano è più facile riscontrare le tracce di quel pragmatismo liberaldemocratico che nel ‘pragmatico’ coglie il razionale come mezzo sensato, frutto di un’analisi intelligente, per la soluzione di un problema di interesse generale. Il valore di un’idea non può mai essere misurato nella sua conformità a un pacchetto ideologico definito una volta per tutte, ma soltanto nelle conseguenze concrete, positive o negative, a cui può dar luogo la sua interpretazione. Pertanto, al platonismo tipico del marxismo-leninismo, Napolitano ha sempre opposto nella prassi il valore del riformismo e del gradualismo. Ecco perché, per Napolitano, i limiti della storia del Pci non stanno nell’incapacità di realizzare la rivoluzione rovesciando il sistema capitalista, bensì nella colpevole resistenza all’evoluzione socialdemocratica che, portando la sinistra italiana nella famiglia delle sinistre europee, avrebbe permesso all’Italia di godere di una democrazia matura basata sull’alternanza tra forze che si riconoscono in una comune matrice costituzionale liberaldemocratica.

Così, mentre negli anni 70 Enrico Berlinguer si incaponisce nell’estremo tentativo di tenere in vita una tradizione politica sconfitta dalla storia, Giorgio Napolitano, fin dal decennio precedente, lavora per la ricollocazione della sinistra italiana nel campo del socialismo democratico e liberale. Ben prima del crollo del Muro di Berlino del 1989, Napolitano è convinto che, pure in mancanza di un esplicito momento Bad Godesberg – quando nel ’59 i socialdemocratici tedeschi abbandonarono ufficialmente l’ideologia marxista e l’obiettivo di un capovolgimento rivoluzionario della società, riconobbero l’economia di mercato e cominciarono a rappresentarsi come espressione del popolo intero e non della sola classe dei lavoratori – il Pci debba autocomprendersi come “parte integrante della sinistra europea e non del movimento comunista” (come avviene nel Congresso di Firenze del 1986).

Una espressione che oggi appare scontata ma che allora sancisce la rottura definitiva del cordone ombelicale con l’Unione Sovietica e la rinuncia all’identità comunista classica. Negli anni 80, per Napolitano, c’è una sola strada: quella riformista propria della dimensione europea. Da qui discende la necessità storica di un ‘ricongiungimento familiare’ con le forze della sinistra occidentale che sono socialiste, laburiste, socialdemocratiche, avendo superato le vecchie pregiudiziali ideologiche del ’900. L’Europa diventa per Napolitano l’obiettivo e la frontiera della sinistra italiana. Contro l’internazionalismo classista del movimento comunista, da sempre diffidente nei confronti del federalismo europeo, Napolitano è un ammiratore di Altiero Spinelli, per anni isolato nel Pci proprio per la sua tensione europeista, e di Alcide De Gasperi, la cui visione è per lui “talmente lungimirante che vale per l’oggi come valeva negli anni 50”.

La conseguente accusa di “migliorismo” – non serve rovesciare il sistema capitalistico, è sufficiente ‘migliorarlo’ – rivoltagli dagli avversari interni (primo tra tutti, Pietro Ingrao) e vissuta con fastidio e sofferenza da Napolitano, si traduce nel nome di un’area, quella dei ‘miglioristi’, spesso guardati con sospetto come la ‘destra’ del partito che dialoga con l’odiato concorrente: il Psi. In realtà, quella dei miglioristi – espressione che alla fine avrà il sopravvento – non diventerà mai una vera e propria corrente. Lo dimostra anche la vicenda di Libertà Eguale, l’associazione fondata alla fine degli anni 90 da un gruppo composito di riformisti di diversa provenienza culturale – tra gli altri, i postcomunisti Enrico Morando e Claudio Petruccioli e i cattolici democratici Giorgio Tonini e Stefano Ceccanti – che si ispira in larga parte alla lezione di Giorgio Napolitano. Non l’ultimo dei comunisti, ma il primo dei socialdemocratici.

28 Settembre 2023

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