Riformista d'avanguardia
Storia di Giorgio Napolitano, dal Pci al Quirinale dove rimase 9 anni
Le battaglie contro i monarchici all’indomani della nascita della Repubblica, la via socialdemocratica della sinistra, a capo dei miglioristi, che lo pose in conflitto con Berlinguer.
Editoriali - di Umberto Ranieri
Giorgio Napolitano apparteneva a quella generazione che scelse di impegnarsi nel partito nuovo guidato da Palmiro Togliatti. Il partito non di una parte ma della Nazione con tutte le conseguenze in termini di identificazione nella cultura e nell’interesse nazionali. Erano gli anni in cui il Pci diventava qualcosa di vitale, di storicamente necessario nella vita del Paese.
Nel 1947, a chi riteneva di aver dato un colpo al partito con la esclusione dal governo, Togliatti avrebbe risposto con le parole destinate a diventare famose: “Veniamo da lontano e andiamo lontano”. Era questo il partito cui Giorgio Napolitano aderì. Fu Renzo Lapiccirella una straordinaria figura di politico intellettuale e giornalista de l’Unità che garantì al partito per la iscrizione di Giorgio. Così accadeva, allora. Giorgio dirigeva la cellula universitaria del Pci in una Napoli in cui al referendum del 2 giugno la monarchia aveva stravinto. La prova del fuoco per Giorgio sarebbe giunta pochi giorni dopo. L’11 giugno, la sede della federazione comunista di via Medina, nel centro della città, fu assediata per molte ore da una folla di manifestanti monarchici inferociti per la esposizione della bandiera rossa del partito e del tricolore senza lo stemma dei Savoia. Fu una prova difficile, ricordava Giorgio Napolitano, che si trovò in quelle ore nella sede della federazione del Pci con compagni e simpatizzanti della “cellula comunista universitaria”.
Vivemmo, scriverà Giorgio, “ore gravi per gli attacchi anche con le armi e per i tentativi di sfondamento della nostra resistenza nei locali in cui eravamo asserragliati”. Fu infine necessario dare dalla prefettura alla polizia l’ordine di intervenire. Rimasero sul terreno morti e feriti. Tra i manifestanti monarchici c’erano donne e uomini del “popolino” napoletano, vivevano nei quartieri più miseri, “immersi nel contesto di una vera e propria disgregazione sociale”. Giorgio, ricostruendo a distanza di anni quell’episodio, escluse che si trattasse solo “opera di provocatori, di facinorosi, di agitatori di professione e di delinquenti”. La massa dei dimostranti di via Medina era costituita essenzialmente dal popolo minuto, animato da grandi sentimenti di fedeltà alla monarchia e dall’antico sentimento di separatismo meridionale che si era risvegliato contro il Nord che prima aveva voluto il fascismo e lo aveva imposto al Sud e ora voleva imporre la Repubblica.
A quelle donne e a quegli uomini i dirigenti comunisti compresero di doversi rivolgere con un discorso di riconciliazione, con uno sforzo di comprensione e “con una formidabile iniziativa di solidarietà” che vide l’impegno del grande editore Gaetano Macchiaroli e dello stesso Giorgio Napolitano. In quegli anni Napoli fu il laboratorio di una esperienza di collaborazione nella ricerca di una via per rianimare la economia della città. Una esperienza promossa da Amendola e Sereni che coinvolse i maggiori esponenti delle organizzazioni imprenditoriali, docenti universitari e tecnici di valore, dirigenti di banche e di compagnie di assicurazione, un arco estremamente largo di forze rappresentative del mondo economico sociale.
Nacque il Centro economico italiano per il Mezzogiorno. Presidente fu designato Giuseppe Paratore, già parlamentare prefascista, legato al mondo della finanza italiana e nel ‘46 presidente dell’Iri. Vice segretario, poco più che ventenne, Giorgio Napolitano che considerò sempre quella esperienza, malgrado la durezza di quegli anni, emblematica della capacità di apertura della sinistra napoletana e del Pci e importante per la propria educazione politica. La guerra fredda travolse tutto. Travolse anche l’idea di una via italiana al socialismo che fu ripresa da Togliatti solo all’ottavo congresso, alla fine del terribile 1956. Si concludeva con quel congresso il “decennio delle grandi passioni” come scriverà Paolo Spriano, grande amico di Giorgio. Insieme alle passioni fu anche il decennio dei grandi errori.
Il Pci in quegli anni ebbe una forte caratterizzazione nazionale ma sostenne sempre e comunque la politica sovietica anche sulle questioni che toccavano più da vicino gli interessi italiani. In ciò stava la doppiezza del Pci, il lato tragico di una grande forza come scrisse Alfredo Reichlin. Giorgio Napolitano seppe guardare criticamente e con severità a ingannevoli convinzioni che da giovane dirigente comunista condivise con una intera generazione di militanti e dirigenti del calibro di Pietro Ingrao ed Alfredo Reichlin. Iniziò allora una riflessione che lo avrebbe portato ben prima del fatidico 1989 alla presa d’atto che la storia della sinistra italiana era stata segnata dalla scelta di separarsi dalla socialdemocrazia.
Scelta che aveva impedito al sistema politico italiano di ruotare intorno alla alternanza al governo tra conservatori e socialisti. Con tutte le conseguenze che questo aveva avuto dal punto di vista complessivo dello sviluppo democratico del Paese. Si rese conto Giorgio che il vero limite della sinistra italiana del dopoguerra non era stato quello delle occasioni mancate per la rivoluzione bensì la sua insufficienza riformista. A pagarne il prezzo, scriverà Napolitano, era stata l’Italia che non aveva potuto contare su una esperienza di modernizzazione analoga a quelle guidate in Europa dalle socialdemocrazie. Di qui la necessità secondo Giorgio di migliorare i rapporti con i socialisti e costruire le condizioni di una sinistra unita. Su questi punti, dalla fine degli anni Settanta si determinerà una tensione con Enrico Berlinguer.
Mancherà allo storico segretario del Pci il coraggio di riconoscere che la sinistra avrebbe potuto candidarsi al governo del Paese in alternativa alla Dc solo in presenza di un Psi capace di una propria originale caratterizzazione. Napolitano era convinto che dopo la esperienza della solidarietà nazionale il Pci, per candidarsi al governo non aveva più bisogno di un assetto consociativo. Il suo ruolo di governo non dipendeva più da una legittimazione esterna ma dalla sua capacità di costruire sulla base di un convincente programma uno schieramento politico maggioritario. Era questa la via per sbloccare, come si diceva, la democrazia italiana. Il punto controverso era nel fatto che per guidare la formazione di uno schieramento alternativo di governo, il Pci avrebbe dovuto condurre avanti la revisione ideologica. Qui si apriva la contesa nel Pci tra miglioristi e Berlinguer.
Il Pci avrebbe dovuto trasformarsi in una forza socialdemocratica. Questa nella sostanza la posizione di Giorgio Napolitano e dei riformisti che, pur tra incertezze e contraddizioni, delineava una possibile alternativa alla linea berlingueriana. Insomma, Berlinguer conduceva un estremo tentativo di tenere in vita una tradizione politica, quella comunista, che si stava disfacendo in quanto aggredita nelle sue fondamenta sia sociali che ideologiche, tentativo in cui si incarnano il prestigio e la tragicità del segretario del Pci. Giorgio Napolitano cercava un’altra strada per venire fuori dalla crisi che investiva il Pci: ricollocare le forze che si erano riconosciute in quel partito nel campo del socialismo democratico e liberale. Il tema dell’Europa per Napolitano, sviluppando in questo la intuizione di Amendola, avrebbe costituito il punto centrale dell’impianto politico e culturale del partito riformista.
In realtà il Pci fu incapace di trarre in modo definitivo le conseguenze delle dure repliche della storia e di anticipare la svolta cui giunse solo nel 1989. Giorgio fu, a partire dagli anni Sessanta, la personalità più rappresentativa della tendenza tesa ad una esplicitazione della scelta riformista da parte del Pci ed a perseguire una alleanza tra il movimento operaio e la borghesia liberale italiana. Una tendenza che restò sempre minoranza e fu sconfitta. Dopo la svolta del 1989 Napolitano continuò la sua battaglia nel Pds e nei Ds per contrastare regressioni politiche, ambiguità culturali, per promuovere ancora la costruzione di una forza della sinistra collocata nel campo del socialismo europeo, dal netto profilo di governo. Una forza capace di non disperdere, come invece accadde, il nucleo vitale della tradizione socialista italiana.
Napolitano pur appartenendo ad una parte politica, è stato uomo delle istituzioni. Impeccabile presidente della Camera dei deputati tra il ‘92 e il ‘94, in una fase tra le più difficili della storia della Repubblica, ministro degli Interni dal ‘96 al ‘98, presidente della Repubblica dal 2006 al 2015, gli anni della grande crisi finanziaria. Fu grazie alla sua energica iniziativa che il Paese riuscì ad affrontare il passaggio dell’autunno 2011 quando l’intreccio inestricabile tra crisi finanziaria e collasso politico istituzionale sembrava condurre l’Italia al fallimento.
Al Quirinale Giorgio mostrò doti di energia e determinazione nello sforzo teso a richiamare i governi alla realizzazione delle riforme economiche e istituzionali, tra cui quella della giustizia, necessarie al Paese. I suoi appelli furono vanificati dalla selvaggia rissosità tra gli opposti schieramenti. Subirà duri e spesso miserevoli attacchi da parte di destra e populisti di tutte le risme. Ad addolorarlo fino alle lacrime fu la morte improvvisa di Loris D’Ambrosio suo consigliere giuridico, un infaticabile servitore dello Stato sopraffatto fino alla morte da una campagna ingiuriosa e violenta. Agli attacchi sconsiderati, alla fatica, alle amarezze Giorgio saprà resistere. Lo farà con la tenacia e insieme la signorilità che lo ha distinto fino al termine della sua vita.