La sentenza di Pozzallo
Il bell’esempio della Meloni: scatena la caccia alla magistrata
Additare il nemico, ossia il giudice e non la sua decisione, legittima ciascun cittadino a scagliarsi contro, a scandagliare le profondità melmose del web per scovare indizi di propensioni, orientamenti
Politica - di Alberto Cisterna
Certo avrà avuto ragione Francis Edward Smedley. Davvero, «tutto è permesso in amore e in guerra» (da Frank Fairleigh o scene dalla vita di un alunno privato, 1870) e ogni comportamento e ogni parola sono consentiti per vincere. Ma trasformare il duro dibattito in corso nel paese sulle misure antimmigrazione in una battaglia campale e in una quotidiana caccia al nemico – una volta la Francia, un’altra la Germania, un’altra ancora tutte e due insieme, poi l’Europa, ora un giudice di Catania e, con lei, l’intera magistratura – non rende un buon servigio al governo e a quella parte maggioritaria dell’elettorato che gli ha concesso ampia fiducia.
A prescindere dalle pericolose ricadute di politica estera di un tale atteggiamento, il dito aspramente puntato da un paio di giorni contro le tre decisioni assunte da un magistrato della Repubblica in Catania segna una cifra di durezza del confronto che non può essere giustificata. Si sono tirati in ballo like su Facebook, private prese di posizione del giudice, pareri e opinioni personali per bollare come parziale e politicamente orientate ordinanze che pochi hanno letto e ancor meno hanno comunque voglia di leggere per formarsi un’opinione indipendente e scevra da tossicità sull’accaduto.
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Additato il nemico, ossia il giudice e non la sua decisione, la scorciatoia è pericolosa, ambigua, tagliente. Rischia di legittimare ciascun cittadino, qualsiasi parte processuale a dolersi della sentenza che lo riguarda, a scandagliare le profondità melmose del Web per scovare indizi di parzialità, propensioni, orientamenti. Delegittimare il giudice e non criticare la sentenza che ha pronunciato – anzi contestare il primo come argomento principe contro la seconda – sembrava appartenesse a retaggi che si pensava potessero essere superati soprattutto grazie al provvidenziale pensionamento o l’epurazione di un ceto di toghe propenso al protagonismo e alla pubblicità mediatica e disponibili, quindi, allo scontro frontale e personale con la politica. La magistratura italiana, nella sua stragrande maggioranza e quasi totalità, ha dismesso queste posture da tempo, anche aiutata dalla legge sulla presunzione di innocenza che ha finalmente contenuto la bulimia accusatoria di più d’uno.
Ora è la politica al suo massimo livello a riprendere le fila dell’attacco diretto, del discredito personale, del “colore dei calzini” con cui si voleva far beffe del giudice di un caso controverso che riguardava un altro presidente del Consiglio. Il fatto è che nella vicenda siciliana è esattamente il governo, il ministero dell’Interno a essere direttamente, in proprio verrebbe da dire, una parte dei procedimenti che hanno riguardato i tre immigrati il cui trattenimento non è stato convalidato. Era stato il questore di Ragusa a disporlo e il rilascio dei tre cittadini stranieri è stato a lui ordinato. Insomma l’autorità governativa, questa volta, non è il distaccato censore delle decisioni del giudice di Catania, ma è la diretta parte del procedimento anzi è quella, come dire, che ha perso la causa.
Ora se ogni cittadino italiano che si vede dar torto – come per forza capita in milioni di cause civili – scatenasse la caccia al giudice e lo attaccasse personalmente, ovviamente il processo diverrebbe un luogo ingestibile, la vita sociale piomberebbe in un disordine incontrollabile. Solo nelle dittature sudamericane i giudici stavano in udienza incappucciati e irriconoscibili; una democrazia matura rende visibili e noti i propri giudici perché la massima trasparenza e la massima responsabilità presieda le decisioni. Nessuno sostiene che il processo civile come quello penale non risenta delle convinzioni personali, delle oscillazioni ideologiche del giudice chiamato a pronunciarsi. Non vivono le toghe in una campana di vetro o in una torre di cristallo. L’unico limite invalicabile che i chierici hanno è quello di dar conto in modo accurato della propria decisione, articolando gli argomenti e rendendo chiare le interpretazioni. Una sentenza immotivata, prima ancora che nulla è un semplice atto di forza da punire in modo esemplare.
Ma leggendo le ordinanze della toga catanese (per chi voglia) non si coglie questa impressione. Valuterà la Cassazione la correttezza delle scelte se il ministero dell’Interno, come pare, presenterà un ricorso, ma i provvedimenti appaiono obiettivamente articolati, puntuali, densi di richiami a norme e precedenti di giurisprudenza costituzionale ed europea. Spieghi il “soccombente” alla pubblica opinione perché ritiene che si tratti di provvedimenti abnormi, illegittimi, che non rispettano la volontà sovrana del Parlamento. Non è proprio una lezione di stile per chi ha perso, per ora, in un’aula di tribunale appellarsi al giudizio del popolo per vedersi riconosciuto il torto subito, ma insomma passi.
Una reazione ci sta. L’abbordaggio alle opinioni e agli orientamenti del giudice è, invece, un’operazione non consentita perché sconfina dalla critica della decisione alla critica del decidente che, però, non ha detto una parola, non ha reso un commento, non ha criticato le autorità politiche del paese, non ha difeso in alcun modo il proprio operato appellandosi solo ai propri atti. Lo ha detto chiaramente il presidente dell’Anm in un’intervista di ieri: «Ci mancherebbe il governo, come qualsiasi altro soggetto, ha tutto il diritto di criticare. E può accadere che un provvedimento non sia ritenuto in linea con le norme».
La critica del dottor Santalucia è in filigrana, ma riluce, poiché reca implicita, ma evidente, l’obiezione che il governo non è un «qualsiasi altro soggetto» e non può scegliere questo crinale per dolersi dell’esito di un giudizio in cui era parte a tutti gli effetti. Non è un gesto d’amore verso il proprio elettorato, né un atto di guerra contro i trafficanti di uomini, per cui non è tutto consentito.